Prefazione
Enrico Campofreda
Si mettono in posa oppure osservano, talvolta curiosi talaltra smarriti. La ritrosia è femminile, accade tuttora e quarant’anni fa era più solida. Nel mondo fermo da secoli, quanti ne ha Sana’a, capitale yemenita, ancor più ferrea e salda è la legge islamica con le sue regole. Viaggiare e fotografare in epoca digitale è diventato un abuso, con l’analogico era già diverso anche per i non professionisti qual è l’autore degli scatti qui raccolti. Che, come rivela lui stesso in apertura del libro, si folgorò dietro i dieci minuti d’una pellicola pasoliniana. Una lingua di celluloide avanzata dal film Decameron (1971) che nell’ultimo giorno di riprese il regista decise di non sprecare. Così, come raccontava al Corriere della Sera, si mise con le residue energie a filmare. Ne scaturì un documentario breve ma intensissimo, testimonianza e richiamo alla comunità mondiale attraverso l’Unesco per preservare Sana’a. Innamorato dell’ancestralità dei luoghi Pasolini li aveva scelti per alcune scene di Alibech, unico episodio del Decameron non girato in territorio napoletano. Il montaggio finale e le valutazioni dello stesso regista escluderanno queste riprese, ma si trattò d’una rinuncia temporanea. La città vecchia di Sana’a resterà nei pensieri dell’intellettuale che lì ambienterà momenti de Il fiore delle Mille e una notte presentato al pubblico nel 1974. I dieci minuti di pellicola avanzata servirono, dunque, a realizzare il cortometraggio-gioiello intitolato Le mura di Sana’a. Lo scopo era lanciare un appello all’Unesco affinché quella millenaria struttura fosse preservata. Diceva il sonoro con la voce del poeta:
“Ci rivolgiamo all’Unesco perché aiuti lo Yemen ad avere coscienza della sua identità e del Paese prezioso che esso è. Ci rivolgiamo all’Unesco perché trovi la possibilità di dare a questa nuova nazione la coscienza di essere un bene comune dell’umanità e di dover proteggersi per restarlo. Ci rivolgiamo all’Unesco in nome della vera, seppur ancora inespressa, volontà del popolo yemenita, in nome degli uomini semplici che la povertà ha mantenuto puri, in nome della grazia dei secoli oscuri, in nome della scandalosa forza rivoluzionaria del passato.”
Dovettero trascorrere quindici anni – Pasolini nel 1975 era finito straziato e martirizzato per la mano nerissima di sicari prezzolati – affinché l’organismo internazionale riconoscesse la cruda terra delle mura della capitale yemenita quale capolavoro dell’architettura dell’antichità. Considerevole la spinta del pregnante documentario in cui traspariva tutta la passione culturale, antropologica, storica, affettiva dell’intellettuale per l’arte del passato e per quella purezza esistenziale del mondo antico. Il poeta di Casarsa l’aveva cercato nella precaria sopravvivenza del sottoproletariato romano all’epoca del romanzo Ragazzi di vita, e poi esaltato liricamente ne Le ceneri di Gramsci. Subito dopo, in un reportage pubblicato sul settimanale Vie Nuove, Un viaggio a Roma e dintorni, va a scovare quegli angoli di città beduina che restano sconosciuti ai turisti: i tuguri dei borghetti in cui ambienterà Accattone, i casali abbandonati soffocati dai palazzoni della nuova speculazione edilizia, gli sterrati e i pratoni dove ancora pascolano le greggi. Vicoli fangosi, difficili da percorrere com’è in salita l’esistenza di chi ci abita arrangiando la vita o mescolandosi con la malavita. Descrivendo Sana’a Pasolini l’aveva definita:
“una Venezia selvaggia sulla polvere, senza San Marco e senza la Giudecca: una città-forma, una città la cui bellezza non risiede nei deperibili monumenti, ma nell’incomparabile disegno”.
Visioni dell’anima le sue, eppure analitiche perché l’orlato che incornicia tanti edifici di quel centro riportano alla mente il bizantinismo orientaleggiante delle dimore lagunari, comprese quelle lussuose dei palazzi nobili e celebrati. Certo, lì la primitiva terra rossastra plasmata dagli ‘operai del fango’ è padrona assoluta, mentre le maestranze della Serenissima potevano vantarsi di cesellare avori e marmi pregiati. Eppure all’occhio dell’osservatore i ricami si somigliano e si rincorrono, disegnano i contorni urbani di Sana’a a oltre duemila metri d’altitudine e di Venezia appena sopra il pelo dell’acqua. Seppure nell’essenza profonda delle civiltà di coloro che lui definisce gli “uomini senza nome” c’è l’afflato più intenso verso quegli “uomini semplici che la povertà ha mantenuto puri, in nome della grazia dei secoli oscuri, in nome della scandalosa forza rivoluzionaria del passato”.
I volti incontaminati cercati dal regista fra i ceti popolari d’Italia all’epoca dei Comizi d’amore – documentario del 1964 – offrono un orizzonte ben diverso dalla veracità vernacolare dei personaggi dei romanzi del decennio precedente. La mutazione antropologica degli umili usciti dal secondo dopoguerra si era definitivamente compiuta tramite un’omologazione di pensieri, comportamenti, mode, aspirazioni di vita, attraverso lo sviluppo che spesso non è progresso capace di sotterrare la società rurale e imporre il consumismo neocapitalista. Da qui la ricerca di altri mondi, principalmente del Terzo Mondo, iniziata nel 1961 col viaggio in India in compagnìa della coppia Moravia-Morante, da cui scaturiranno gli articoli per Il Giorno poi confluiti nel testo L’odore dell’India. Fino a giungere una prima volta in Yemen nel 1963. E se il regista - come scriveva su Paese Sera, I diseredati sono il nostro Terzo Mondo, articolo del 1966 - meditava un film a episodi con spaccati su India, Africa subsahariana, Paesi Arabi, America Latina, ghetti neri statunitensi, quel lavoro (Appunti per un poema sul Terzo Mondo) non vide mai luce. Invece prese corpo la narrazione immaginifica, inserita nella classicità letteraria occidentale e del vicino Oriente, dei film Decameron e Il fiore delle Mille e una notte. E il paesaggio yemenita, le radici d’una civiltà transitata per le rotte carovaniere e mercantili ancor vivo con la sua gente alla fine del Novecento, erano presenti in carne e ossa, tutte da scoprire, immortalare, preservare. Umanità e caseggiati. Stoffe multicolori, lame incurvate, utensili atavici riproposti nei suq, sguardi ammaliati e occhi infantili. È lo scenario che Marco Felici ha incrociato con la sua macchina per immagini, sapendo di trovarlo proprio perché stimolato dal cortometraggio pasoliniano del decennio precedente.
Ma questo passaggio che all’avvìo degli anni Ottanta iniziava a introdurre qualche infrastruttura contemporanea: un adeguato sistema fognario, cavi per l’elettrificazione, nuove strade, sebbene tuttora solo un migliaio di chilometri risultino asfaltati e i collegamenti ferroviari siano inesistenti, è stato di recente violentato dall’ennesima guerra mirata. Quella scatenata dalle petromonarchie della ‘Coalizione del Golfo’ – Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti su tutte – per reprimere la rivolta dei ribelli Houti. Costoro dal 2011 si oppongono al governo dapprima guidato dal presidente Saleh, uno dei tanti satrapi presenti in Medio Oriente, spodestato, autoesiliato, rientrato in patria e deceduto per mano d’un cecchino. E proseguono la rivolta contro un successore-fantoccio foraggiato dai sauditi e dagli amici americani. I partigiani di Dio (Ansar Allah), si chiama in tal modo il gruppo armato degli Houti che professa religione zaydita, controllano ormai una buona parte del territorio. Sin dal 2015 hanno dovuto subìre lo stillicidio della cosiddetta «Tempesta decisiva», l’assalto repressivo dell’iniziale ribellione a suon di bombe dal cielo e da terra. Bombe finite spesso sulla popolazione civile, mietendo finora trecentomila vittime. La stampa internazionale poca attenzione ha dedicato a questi eccidi, ha quasi taciuto lo scempio delle ‘bombe intelligenti’ sugli edifici medioevali di mattoni e pietra. Non solo nella capitale, i cui crocicchi quarant’anni addietro hanno fatto da sfondo alle foto qui raccolte. Uno dei più antichi centri religiosi sciiti della penisola araba, la città di Sada’a, è stato raso al suolo. Danni irrecuperabili sono stati prodotti a Barâquish, località simbolo del regno carovaniero Ma’in. La città di Marib, orlata di una cinta muraria all’interno della quale si snodavano giardini irrigati dall’omonima diga, quasi non esiste più. Per tacere della preziosa collezione del museo archeologico di Dhamar, con dodicimila manufatti d’arte islamica e pre-islamica letteralmente polverizzati dai missili. Tutto ciò è accaduto, e sta ancora accadendo, con la complicità della geopolitica internazionale, nel silenzio omertoso dei media. Già nel primo anno del conflitto l’umanità aveva perso cinquantadue siti archeologici solo perché tali attacchi venivano considerati una “guerra giusta” contro un nemico avverso. E si è continuato. È la follìa che reimmerge l’attuale politica mondiale nel buio bellicista dei secoli passati, coi nazionalismi, le guerre sante, i suprematismi culturali ingigantiti dalla capacità distruttiva di leader tecnocrati e militaristi. Salvare il passato rappresenta salvare la vita, la nostra anima, i sogni di ambienti diseguali. Affascinanti per le loro diversità. Non vogliamo che di tutto questo restino solo macerie. |