Introzione
Marco Felici
Nell’inverno del 1982 mi trovavo a Parigi e nel cinéclub dell’Alliance Francaise – dove stavo studiando – mi capitò di vedere Le mura di Sana’a, un documentario che Pier Paolo Pasolini aveva filmato dieci anni prima in forma di appello all’UNESCO perché lo Yemen, il paese in cui stava girando un film e di cui si era innamorato, venisse aiutato a salvarsi dalla sua distruzione.
Era un documento breve ma potente, di cui ricordo mi colpì subito l’inizio, con quest’uomo yemenita che nel mezzo di un campo agricolo – in piedi sopra un trespolo - faceva schioccare la sua lunga frusta per tenere lontani gli uccelli dal seminato. Uno spaventapasseri in carne e ossa.
Come tanti giovani della mia età, ero già incantato da Pasolini ed attratto da tutte le cose che aveva fatto o di cui si era occupato, anche da quelle che non capivo. Anzi soprattutto da quelle.
Pensai che lo Yemen poteva essere alla mia portata, nei mesi seguenti misi da parte il necessario e nel dicembre dello stesso anno ero su un volo della Yemenia Airways con destinazione Sana’a.
La città mi apparve bellissima, con le sue alte e grandiose case, tutte costruite in pietre dal colore grigio e il rosso bruno dei mattoni a vista, con le finestre che erano la decorazione principale, i frontoni, le sagome a ricami in bianco, facevano un effetto davvero magnifico.
Lo Yemen, privo della ricchezza del petrolio, aveva mancato lo sviluppo economico ma avuto almeno come conseguenza positiva la conservazione integra della propria identità, del patrimonio storico e di quello architettonico. Certo si attuavano la costruzione delle infrastrutture, con i progetti di elettrificazione e fognature che avevano portato il paese nel mondo moderno. Ma per molti aspetti rimaneva immutato, con torri residenziali di mattoni cotti e alabastro raggruppate attorno a mercati di argenti, gioielli, tessuti colorati, prodotti freschi e spezie.
Le donne indossavano abiti tradizionali che drappeggiavano il corpo stampati con disegni multicolori. Gli uomini sempre cordiali e amichevoli pur portando spesso con loro armi, e per tradizione un pugnale con la lama ricurva, o jambiya, infilato nelle cinture di broccato. I pugnali mostravano lo status ed ogni gruppo indossava jambiya con segni che indicavano la propria casta di appartenenza.
E poi naturalmente i volti innocenti delle bambine e dei bambini, che con la loro semplicità e gioia contagiosa, risplendevano nelle strade polverose illuminando il cuore di chiunque incontrasse i loro sguardi.
Non saprei dire come si presenti il paese oggi che sembra essere di nuovo sprofondato in condizioni estremamente precarie. Se ne sente parlare tanto in questi periodi, spesso a sproposito, ma non ho più notizie dirette.
E proprio questa catastrofe incombente, mi ha riportato dopo tanti anni sulle molte fotografie che avevo scattato all’epoca nelle strade dello Yemen. Portavo con me le mie due vecchie fedeli Nikon F, tenendo sempre lo zoom 100/300mm montato su una, ed alternando il 35mm e l’85mm sull’altra.
Con l’editore ed amico Davide Ghaleb ne abbiamo scelte una parte. Sono dei frammenti, tessere preziose che provano a ricostruire quel mosaico di compiuta bellezza che era la vita quotidiana nelle strade.
Spero che nel mezzo delle sfide e delle molte difficoltà, queste fotografie possano essere un riflesso di dignità e un raggio di speranza per la popolazione di quel meraviglioso ed antico paese. |