Le memorie come le ciliegie di Agnese Lucci Righi
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Introduzione
di Felice Norcia

Questo libro di memorie abbraccia un tempo assai lungo: dal 1924 ai nostri giorni; quasi tutto il “secolo breve”. Si potrebbe dire che è il libro ad essere breve rispetto al secolo, ma ogni parola è contata, ogni periodo scorre scarno ed essenziale rifuggendo l'autrice da abbellimenti ed orpelli tesi a stupire. E' difficile imbattersi in un'autobiografia come questa, priva di scivolate patetiche e sentimentali. Anche la malattia, la morte, il dolore sono appena accennati, quasi messi fra parentesi. E anche l'amore, questo tema impossibile, è presentato senza parole sopra le righe e romantici patemi. Immaginate una spiaggia, un gruppo rumoroso di ragazzi e ragazze e con loro lei che esibisce il suo spirito spiritoso, la sua verve. E, appartato, un ragazzo lontano che legge. Un mattino presto il solitario e l'esuberante si incontrano da soli, parlano, si appartano per lunghe conversazioni e nasce da questi incontri un sentimento affettivo reciproco. Dolore e amore vengono trattati brevemente, col pudore che meritano. A un certo punto cominciamo a sospettare che in queste memorie, immanente a loro, sia nascosto un qualche nostro sogno, che non sempre sappiamo riconoscere ma che inseguiamo. Poi, a riflettere con calma possiamo decidere che questo non è lo sviluppo di un argomento affatto frivolo e vano, l'Io, ma il dispiegarsi di una vita che ci riguarda e dunque di un Noi. Vediamo da vicino la forma compositiva di queste pagine. L'autrice presenta molti luoghi, tra città e campagna e nel presentarli dimentica se stessa, tesa alla descrizione minuta e dettagliata, dopo di che, sul fondale descritto fa vivere i suoi personaggi, signori o contadini, trattati tutti- paesaggio, uomini, donne, bambini -con lo stesso rispetto. Possiamo prendere ad esempio una casa di campagna nella cui descrizione si arriva ad includere ripostigli zeppi di attrezzi agricoli nominati uno per uno. E come soddisfatta dal disegno chi scrive può parlare della sua “innocente esperienza” come la trebbiatura, avvolta nella paglia e nella polvere luminosa. Ma in noi, gira gira, della seconda guerra mondiale (trattata al posto che spetta a una tragedia), non resta che l'immagine dei soldatini destinati al massacro, che spalano la neve e dimenticano l'ordine ricevuto per comporre, sulla strada, con la neve appunto un motto augurale. O le zolle d'erba su un terreno desolato, rigogliose perché nutrite da cadaveri sommariamente sepolti. L'odore dei tigli, del borotalco, certi paesaggi naturali, ci ricordano Proust. E qui non si tratta di scomodare la grande letteratura, l'accostamento non riguarda lo stile, che nel grande scrittore francese è tanto avvolgente e magico quanto semplice e scarno in queste pagine, ma per come è vista l'infanzia capace di percepire il momento che vive come eterno, senza possibilità di ritorno in sé. Tra le righe, è l'autrice a confessare: “In fondo non sono cresciuta: sono rimasta con lo stesso stato d'animo della brava scolara che vuole accontentare l'insegnante.” Questo libro è scritto da una insegnante per scolari sensibili e capaci d'ascolto. I quali possono, leggendo, inciampare nella poesia, che non è un gioco di società. Sentite:“A Roma il silenzio notturno era popolato dallo scampanellio dei tram, da qualche raro clacson, dal rumore delle ruote delle carrozzelle, dalla voce di qualche passante. Alla Giustiniana, invece, si sentivano soltanto i cani da guardia chiamarsi abbaiando da una lontananza all'altra, come voci rassicuranti di sentinelle all'erta.” Da parte nostra, per concludere, non resta che imitare l'autrice, chiudendo con alcuni versi tratti dall'Antologia di Spoon River pronunciati da una donna, Lucinda Mattock, che possono rappresentare il sigillo di un così bel libro:
Cos'è questo che sento di dolori e stanchezza,
e ira, scontento e speranze fallite?
Figli e figlie degeneri
la vita è troppo forte per voi.
Ci vuole vita per amare la vita.