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DENTRO LA TEMPESTA
Aurora Mattei


Prefazione
Antonello Ricci

“In altri termini, il racconto racconta anche la cura.
In un certo senso, esso non racconta che la cura.”
Michel Leiris

Conosco Aurora già da qualche vita (è proprio il caso di dirlo). Scricciolo minutissimo dal cuore immenso, brave e tenace fino all’ostinazione, turbolenta per emozioni e sentimenti, scrigno traboccante di energia vitale, di gioia e gratitudine per esserci al mondo. Ma ci avrei scommesso che questa sua opera prima, Dentro la tempesta, mi avrebbe colto di sorpresa. Lietamente sbaragliato nonostante e attraverso l’implacabile-disperata durezza della storia di malattia e guarigione vissuta (in realtà sarebbe d’obbligo il presente: la riabilitazione è ancora in corso) di cui Aurora intende far memoria con queste pagine. Memoria e terapia. Notiamo spesso, magari un po’ per vezzo e per luogo comune, come scrittura e racconto non sia altro che azioni terapeutiche. Ma Dentro la tempesta lo è davvero, terapeutico, in senso pieno, assolutamente letterale. Cura di sé, anzitutto: scrivere-narrare aiuta a cicatrizzare ferite. Ma anche messaggio in bottiglia: testimonianza-educazione al dolore e all’impotenza, alla disperazione, a resilienza e desiderio di rinascita (complesso e periglioso viluppo emozionale che s’impossessa di te) per chiuque sia toccato o tocchi in sorte lo stesso destino (aggrediti-disarmati e messi a repentaglio di vita): soffrire della sindrome di Guillain-Barré. In verità, il saggio e appassionato ammonimento alla speranza e alla saggezza che promana da queste pagine – sorprendenti per velocità e “graffio” di scrittura: non te lo aspetteresti da una autrice giovanissima e non professionista – s’impone universale, al di là di tutto, toccando tutte e tutti noi, persone cosiddette sane. Detto poi senza troppi giri di parole o nozionismi spigolati in fretta e furia dal web (il lettore potrà farlo da sé in ogni momento): la sindrome di Guillain-Barré è quando il nostro corpo – senza vero e proprio preavviso – si assenta da noi: principia a farsi opaco e si “allontana”, smemorato come l’Euridice di Rilke, ammutolisce estraneo, facendosi sfinge enigmatica, irreparabilmente altro dal nostro Io, che vi resta in trappola, come imprigionato. Un “tradimento” che piomba la nostra mente e il nostro cuore, rimasti invece vivi e (fin troppo) presenti, nella disperazione più nera, oltre ogni limite. Va ricordato che la casistica della Guillain-Barré è assai variegata: certo è che, nella sua manifestazione estrema, essa confina con la morte. In purissima, perfetta e magnifica solitudine (i genitori sì, gli amici e le amiche sì, c’erano tutti, e c’era la loro atroce sofferenza: ma remotissima, come da dietro il vetro di un’acquario, come da un universo parallelo e inaccessibile, come da un regno di morti), questi territori ha esplorato Aurora: immobilità totale con pericoloso indebolimento della funzionalità diaframmatica (quindi di quella respiratoria); rifugio estremo nel coma indotto per via farmacologica con relativa tracheotomia per la sopravvivenza; risveglio lento e parziale del corpo; inizio del recupero riabilitativo a partire dal dito indice che scorre sulle lettere, desideroso di riattivare la comunicazione col mondo “esterno” al corpo-carcere; ripresa-purgatorio con tratti da calvario (non saprei come altro definirlo) per un recupero riabilitativo il più possibile completo. Desiderio di tornare a essere com’era prima dell’assedio, ma anche incertezza destabilizzante, frustrazione e paura-angoscia di non riuscirci, di non farcela. Incompleto e transitorio, insomma, ancora oggi mentre scrivo queste righe, è il recupero di Aurora. Ma Aurora è potente e non si arrenderà. Il lettore non mi chieda perché ne sono così sicuro. Lo so e basta. Conosco Aurora già da qualche vita. All’attacco!