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LO SGUARDO ESTREMO
di Lorenzo Ferri


Prefazione

Lo sguardo estremo è una silloge poetica che definiamo geometrica: parliamo della geometria di un dolore, un dolore circolare, sgranato come un rosario lungo i misteri della vita e della morte. Dal grembo materno: quell’alveo biologico rotondo che nutre la vita fino al dirompente passaggio alla terra, attraverso il dolore più grave, ctonio, viscerale: il parto. A ben vedere, la nostra intera fanciullezza è un caparbio tentativo di restare entro i bordi di quell’amore circolare, ove ogni maldestro e fallibile nostro segno è soltanto un abbozzo, che con quell’esempio rotondo, perfetto, intende misurarsi. La stessa casa, durante la nostra infanzia, non è che l’estensione del grembo: un raduno amniotico entro il quale essere ancora circoscrittibili. Soltanto il nostro umano percorso, vitalisticamente centrifugo, ci vedrà configurarci come individui: lasciare la casa, pertanto, sarà altrettanto cruciale del parto nell’impresa, oltre i limiti appunto, del diventare adulti.
Accade tragicamente, nell’esperienza di Lorenzo Ferri, che dalla casa sia la madre a mancare anzi tempo. “Amavi la terra nera, / come figlia / ama la madre. / Amasti scavarne il grembo […] / Ora la terra ti ha accolta”. Rimane, ventenne, col padre, a cercare di tenere accesa la luce nella casa ove è calato fitto il buio del dolore e della assenza. “Io e mio padre / […] nella casa vuota / abbiamo pianto / mentre Cristo nasceva / […] Io e mio padre / muti / abbiamo guardato a lungo / il posto vuoto”. Quel buio, quel silenzio e quell’assenza radono al suolo la casa stessa, che diviene relitto desolato in cui fa eco solo la fanciullezza. Diviene sepolcro di tutte e ciascuna le certezze: le mura decrepite franano; le finestre sbattono; le stanze si serrano; i fantasmi la abitano; la morte la reclama come proprio regno.
Per mettersi in salvo occorre lasciarla, la casa. “Devoti pellegrini partite in fretta / verso quel porto ove la quiete attende / è tempo d’andar oramai che molto aspetta / la voce e il cuor di chi solo v’intende”. Occorre costruirsi altrove un rifugio, un nuovo grembo. E costruirlo con quel poco che resta: i brandelli della carne, le lacrime, la colpa, tenuti insieme da un dolore rovente. Eppure non basta: occorre farsi sasso, per starci in modo più confortevole in quel dolore. È la madre ad ammonire il figlio: “sulla terra i sassi, le pietre / non gridano mai / non hanno mai pianto”.
Il giovane Lorenzo, interamente disincarnato, trasfigura nella natura: “in verde lava si muta la carne”. Diviene corteccia d’ulivo, acqua che disseta, provvido libeccio; spiaggia di settembre, onda che si apre, muto scoglio; collina placida, rana nel canneto, rapido insetto; denti di lupo, valle che sprofonda; grido d’agnello che “ha la testa sporca di sangue e terra”: perché dal sangue e dalla terra viene; nel sangue e nella terra si ultimerà; in una dimensione in cui, finalmente, imperfezione e finitezza non turbino sonno di alcuno. “Ho lasciato il mio cielo / sui rami degli alberi”. E ancora: “La certezza della morte / che trafigge gli alberi / da secoli piantati / alle radici / io la posseggo, Signore”.
Da quell’altrove imperturbabile, Lorenzo può riuscire a guardare al padre, alla casa, al ricordo della madre. Da quell’altrove, riesce persino a prefigurare un nuovo battesimo, una qualche salvezza: “Bianca come merletti / mi laverà la luce / e sarò leggero / come l’ombra delle foglie”. E se lo sguardo estremo della madre è tale, dovremo trarne che oltre quello sguardo si debba aprire necessariamente e circolarmente qualcos’altro. “Qualcosa / che vivo respira tra l’erbe / e in segreto mi nutre / […] Da tempo dovevo sillabarti / ma ora / ti bevo e nel suono m’ubriaca / di gioia / la parola”.
Dal deserto muto del dolore, la parola. Appena depositata la polvere di tutto il dolore, è tempo di ricominciare a sillabare, appunto, a nominare le cose dal grado zero. La vita trova un varco laddove è possibile nominare il dolore annoverandolo tra tutte le altre cose sulle quali siamo inciampati, sin da bambini. Imbattersi nella vita o nella morte non è che un accidente: nella scrittura musicale l’accidente definisce soltanto il colore di una nota, non la sua preesistenza alla nostra intenzione di ascoltarla o addirittura di suonarla. Pensiamo a Beethoven e alla sua celeberrima Sinfonia n. 7 in La maggiore, op. 92. Nel primo (sinestetico) movimento, da una prima abissale apnea nel dolore, la partitura si apre attraverso tutta l’orchestra, consentendoci di “ascoltare” una luce accecante. Quando balbettiamo “mamma” per la prima volta, allora inizia la nostra personale “creazione”: del buio e della luce; del giorno e della notte; della terra, dell’acqua, del fuoco; delle piante, degli animali e degli uomini tutti. Da quell’esatto punto. L’ultima parola che dovremmo imparare a pronunciare – in un mondo buono e giusto – è “morte”. Ma tutto quello che balbettiamo tra la prima e l’ultima parola è il nostro personale, circolare, rosario quotidiano. È di Montale la supplica: “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro inquieto, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato” (E. Montale, “Non chiederci la parola”, in Id. Ossi di seppia, Mondadori, Milano 1991, p. 39).
Con quanta voluttà ci nutriremmo di quelle “lettere di fuoco”. Ciò nonostante, umanamente, tentiamo di avvicinarle, di addomesticarle, sillabando. E come i bambini continuiamo a nutrircene. “Né i palpiti sotto la mammella / sinistra si smorzano”: la più intima e carnale confessione di Lorenzo Ferri.

Anna Lana