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D'AMOR, DI POESIA E D'ESISTENZA
Giuseppe Stefanoni (a cura di Silvana Alario)


Introduzione critica
Marilena Fonti

A Giuseppe Stefanoni la poesia piaceva: ci giocava, plasmando parole e versi secondo l’estro del momento, piegando le rime ai suoi guizzi d’impulso e, allo stesso tempo, arrendendosi a esse. Nei suoi versi si trovano tutti gli esempi sperimentati e usati prima, e in qualche caso anche dopo, di lui: c’è la rima baciata, che interseca con la rima alternata, ma anche con la rima incrociata, l’incatenata e la rima interna. Ma ci sono anche poesie in cui la rima è assente, in cui lui si avventura nel blank verse di shakespeariana memoria, con un endecasillabo giambico perfetto nel suo ritmo inconfondibile. Giuseppe con la poesia si divertiva, perché la amava. I suoi versi si muovono agilmente tra terzine e quartine, qualche pentastica e qualche rara ottava. In Polemica e commento a Felicità raggiunta di Eugenio Montale si alternano pentastiche e quartine, seguite da ottave, decima rima e senario doppio: un trapezista della poesia, non si fermava davanti a nulla Giuseppe. Bello il calligramma in cui i versi si dispongono sinuosi a formare la S di Silvana, sua moglie, e quello che si snoda incerto a simulare lo sguardo insicuro di chi ha la vista offuscata. Le figure retoriche sono tante e ricorrenti: oltre alle metafore e sinestesie, sono presenti poliptoti e anadiplosi, molti ossimori, frequenti enjambement: questi ultimi sembrano dare ai versi di Stefanoni un senso di continuità, il senso di un’idea che non si concluda in una riga, ma continui e si sviluppi nella successiva. E anche tra i vari componimenti c’è una sorta di legame che ne sancisce la matrice.
Quella di Giuseppe Stefanoni è una scrittura colta: il suo lessico è perlopiù ricercato, aulico perfino. Ma questo non gli impedisce di abbandonarsi al divertissement, dando a tratti alle sue poesie il tono scanzonato del gergo popolare: in alcune si affida a un dialetto personalizzato laziale, in altre, pur mantenendo un registro linguistico alto, introduce elementi lessicali che appartengono a un contesto licenzioso, con risultati esilaranti. In fondo fa quello che facevano Catullo e Marziale nelle loro poesie meno conosciute, o lo stesso Dante, in vari punti della sua Commedia, che spesso perdeva la connotazione di Divina, come nel canto XVIII (versi 116-117, 130-133) dell’Inferno, per esempio. Nella serie di sonetti, sette in tutto, dedicati ad Adamo ed Eva, riesce a combinare una forma classica impeccabile, che rispetta lo schema petrarchesco, con sfoghi da schermaglia amorosa, strappando più di un sorriso. E deve essersi divertito molto anche lui nello scrivere quei versi.
Leggere questi componimenti è come fare un viaggio dentro la sua esistenza, che si è conclusa troppo presto, è vero, ma ha raggiunto livelli di interiorità e di pensiero che sono retaggio di pochi. Giuseppe amava la poesia e la cultura classica, presenza costante nella sua opera.
Tra i suoi versi si palesano Omero, Lucrezio, Virgilio, Ariosto, Dante, di cui usa anche il lessico, come nel caso di ‘freddore’, nella poesia Ballade presque provençal ( da Il Fiore, I “…la seconda Angelicanza: Quella mi mise sopra un gran freddore”), Foscolo, (“quel di Zacinto figlio”). C’è anche Baudelaire e, a proposito di quest’ultimo, non si può fare a meno di citare i versi introduttivi della prefazione a Les fleurs du mal “Hypocrite lecteur-mon semblable-mon frere”, versi ripresi da T. S. Eliot nella sua opera Terra desolata, nella sezione La sepoltura dei morti. Perché la morte aleggia tra i versi di Stefanoni, si affaccia spesso tra una sinestesia e un ossimoro: si ha l’impressione che il poeta si senta incalzato da questa «crudele, astuta, indecente sorella». Ci sono anche echi joyciani in Fuoco ai sepolcri “Se ogni nato muore, quello dei morti è popolo più grande dei vivi”.

Un altro grande amore di Stefanoni era la politica, nella sua accezione più alta, quella che si cura del bene comune senza distinzioni di sorta. C’è il suo dolore per la Palestina «contesa, per fame di possesso»; c’è la compassione arrabbiata perché inefficace, come «le rivoluzioni… schizofreniche ondate di follia», per quel ‘quinto’ di uomini “che rimane e ci fa pietà, ad ogni conferenza della FAO”, con Zoluska la notte di Natale (Zoluska è russo per Cenerentola); rabbia per “i potenti che non ci vivono, spingono al sangue i figli dell’olocausto e gli esuli d’oggi”. Tra le poesie, quelle in cui tratta di questioni politiche e di ingiustizia sociale sono veri e propri manifesti del suo pensiero e del suo programma.
L’amore più grande di Giuseppe Stefanoni, che traspare da questa silloge, è tuttavia quello per sua figlia: Ilaria è presente in molte sue poesie, forse in tutte, come retropensiero che è lì ma non è esplicitato. Ilaria dal “gran sorriso d’occhi”, Ilaria, il cui “sonno soave” sparge serenità “sulla disperata veglia” del padre. La figlia a cui lui augura “Sogna, bambina mia, sogna mio giglio!”, in una poesia struggente, ricordo di un momento di serenità al mare di Santa Marinella. L’augurio del sogno forse è l’eredità più preziosa che lui le abbia lasciato.
“Nessuno è santo o peccatore” scrive il poeta nei versi dedicati ai suoi genitori: è in queste parole che si cristallizza il pensiero di Giuseppe Stefanoni, in una specie di redenzione per sé e per gli altri, nella consapevolezza che, per dirla con Ungaretti, la morte si sconta vivendo.