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IN TERRA DI NESSUNO
di Francesco Patriarca

a cura di Marco Patriarca

Prefazione di Marco Patriaica

Pochi mesi fa, mentre facevo ordine nel mio studio, mi è caduta tra le mani un’anonima vecchia cartellina impolverata e ingiallita dal tempo. Con mia sorpresa conteneva un manoscritto datato 1944 e firmato da Francesco Patriarca, mio padre (1910-1966); era una commedia dal titolo
In Terra di Nessuno, dai caratteri appena leggibili, oramai quasi cancellati dall’usura e dalla polvere. Ne ero a conoscenza? Quando l’aveva scritta avevo quattro anni; ne parlò mai e a chi? Non ricordo, ma la rilessi immediatamente. Sorpresa e commozione. Ho scoperto mio padre autore segreto e celato dalla sua discrezione e dal passaggio del tempo. Dal procedere elegante delle parole di questo suo lavoro ho ritrovato la sua voce e i suoi pensieri, e la sua sorprendente dimestichezza con la verità storica e umana del tragico periodo della guerra, dalla quale era anch’egli un reduce sofferente e sdegnato. Lo ha fatto con la delicatezza e la misura di uno scrittore di professione che calibra attentamente la psicologia dei suoi personaggi, mentre li muove sulla scena. Mi sono chiesto se sia stata la sua esperienza sul campo, in guerra e durante quel terribile ’44, a contatto con una umanità così eterogenea, a farne uno scrittore così convincente. I testimoni di quegli anni tragici, per il dolore che hanno provocato, hanno tentato di rimuoverne ogni ricordo ed è forse per questo che siamo tutti rimasti così a lungo all’oscuro di questo testo, che aveva forse mio padre stesso sepolto inconsciamente. Oggi però riemerge, pubblicato a beneficio di coloro che lo vorranno leggere, grazie alle attente cure dell’editore Davide Ghaleb di Vetralla.
La commedia si svolge classicamente in una coerente unità di luogo, di tempo e di azione. I personaggi sono semplici e familiari, presi da un campionario per nulla letterario, e immersi fino al collo nelle pericolose bolge che seguirono l’inferno verificatosi dopo la caduta del Fascismo, l’8 settembre del ’43 e per tutto il ’44. In tutti i personaggi freme l’incessante sensazione di pericolo, che fa nascere coraggio e paura mista ad una solidarietà che ce li fa sembrare ancora vivi e vicini a noi: personaggi per i quali, tra incoscienza, paura, astuzia e generosità, il caso non cessa neppur per un momento, di fare il suo mestiere, generando reazioni inattese, verità nascoste invertendo spesso il gioco delle parti. Persa quella brutta guerra, l’Italia era politicamente e militarmente «una terra di nessuno» nella quale tutti erano minacciati: dai residui della polizia fascista, dalle ritorsioni spietate dei tedeschi, dai rastrellamenti dei repubblichini, dai bombardamenti degli alleati e persino dalle vendette di alcuni partigiani a caccia di ex fascisti. Tutti contemplavano l’immanità del disastro e dovevano convivere con i veleni della disfatta nazionale, con le vendette politiche e con il governo incerto e precario di un paese ferito a morte. Francesco Patriarca aveva da tempo avuto il presentimento di ciò che sarebbe accaduto all’Italia: come scriveva a sua moglie dall’Albania, dove era capitano dell’esercito, mentre i cecchini dei nostri ex amici ed ex alleati albanesi ci sparavano da ogni pertugio. In un vecchio cassetto ho sfilato da una busta ingiallita, recapitata dalla posta militare a sua moglie a Roma, vistosamente stampigliata con il Visto per la Censura, una lettera dove si trovava scritto nella sua originale calligrafia: … siamo preda di falsi, di menzogne e delle prepotenze di quella grande turlupinatura che passerà alla storia con il nome di Fascismo… Ora, alla fine di quella tragica turlupinatura , mentre quell’incubo era vicino alla fine, si preparavano altre tragedie per le migliaia di sbandati, buoni e cattivi, tutti dominati da eventi più grandi di loro. In quel clima sembrava che nessuno fosse rimasto innocente e, nei mesi che seguirono, molti credettero di ritrovare le propria identità. Fra il rischio d’insurrezioni, recriminazioni, aggressioni , case distrutte, borsanera e la fame dilagante, un trentaquattrenne che aveva combattuto, un liberale, un credente e un ottimista come Francesco Patriarca poteva forse essere uno dei pochi che avesse ancora la vena di far parlare e muoversi, su un palcoscenico immaginario, personaggi appartenenti a un quadro così gravido di imprevisti. Lo ha fatto facendoli apparire ai nostri occhi semplicemente umani e familiari.
Teofrasto, ventiquattro secoli fa, aveva stabilito un elenco di trenta caratteri umani ad uso dei drammaturghi: i superstiziosi, i prepotenti, i calunniatori, i volgari, gli usurai ecc. Geni come Shakespeare, Cervantes, Balzac o Pirandello lo hanno spesso preso sul serio ed hanno reso immortali personaggi complessi, affascinanti, eterni, ma quasi sempre fortemente tipizzati. I personaggi di Francesco Patriarca non sono tali e nella reale società di allora non vanno cercati molto lontano: tutti, idiosincratici fra loro, sono palesi e integrati al loro mondo, cioè al nostro. Seguendoli nelle vicende narrate, però ci si accorge di come, nel bel mezzo del pericolo, ciascuno sorprenda se stesso con inattese reazioni innanzi a situazioni gravi che sembrano non avvertire. Leonardo scopre di avere un notevole sprezzo del pericolo ospitando a suo rischio ex militari allo sbando e fuggiaschi sconosciuti; Piero, un signore di campagna, divenuto ospitale come non mai, ha imparato a muoversi fra cento pericoli; Embleton, il finto prigioniero sfuggito ai tedeschi, un vero spione per gli alleati, scopre di essere un abile simulatore; il comandante tedesco von Rauch, un bell’uomo gentile ma ombroso e torturato da oscuri pensieri, inavvertitamente, finisce per abbandonare i suoi sinistri propositi incantato dalla dolce Fiorella; la matriarcale zia Carolina dà segni di vigliaccheria; la disinvolta Anna diviene insopportabilmente prudente; e infine la deliziosa Fiorella che, con un inconsapevole slancio emotivo, manda in pezzi la corazza nibelungica del maggiore tedesco, ed è forse la vera deus ex machina della commedia.
I personaggi in quei tragici giorni sono tutti inconsapevoli dei rischi che corrono e, di fronte alla gravità delle loro situazioni, sono del tutto impotenti. Tutti meno uno: l’amorevole diciannovenne Fiorella; mossa dalla compassione per l’enigmatico, cortese ma sofferente maggiore tedesco, misterioso ospite in casa imposto dal suo comando, lo invita a pranzo. Immaginiamoli su un palcoscenico: il tedesco in alta uniforme, Fiorella, con uno scialle di lana azzurro che elegantemente la avvolge, ha appena portato in tavola una scodella di fettuccine fragranti di ragù. Il tedesco accenna un sorriso di gradimento ma resta silenzioso. La conversazione è di circostanza e il tedesco risponde evasivamente alle preoccupazioni di Fiorella, che discute sulle tragedie per le popolazioni ancora in guerra; poi, con innocente disinvoltura, la ragazza si avventura in una domanda personale: che cosa farà il tedesco dopo la guerra? Il tedesco farfuglia, non risponde e sembra sconvolto da quella domanda impertinente; ma gli occhi amorevoli di Fiorella, ignara delle ragioni di quel silenzio, non lo mollano e, dopo attimi di imbarazzato silenzio, il tedesco, per liberarsi dall’incanto di quegli occhi, si lascia distrattamente sfuggire che per lui non vi sarà alcun dopoguerra; per aver offeso il Führer ha tradito la patria ed è deferito al tribunale militare; ma dovrà essere lui stesso – le dice con tranquilla rassegnazione – a lavare un tale disonore. Fiorella prima ascolta incredula ma poi capisce tutto ed è atterrita. Improvvisamente i suoi occhi si accendono, perde la calma, alza la voce e lo redarguisce senza ritegno: gli dà del pazzo, del cieco e soprattutto dello stupido. Stupido? Fra tutte le accuse che sente di avere, che affollano la mente di quel prigioniero di se stesso ancor prima che del Reich, mai avrebbe pensato che il suo onorevole proposito potesse essere stupido. L’idea lo getta nello sgomento e qualcosa dovrà pur fare per cancellare quella parola dalle sua mente. Così, è con questa parola, che così banalmente sintetizza la follia della guerra, gli inganni della coscienza e fragilità umana, che l’autore mette fine alla sua commedia. Dunque ai margini della Terra di Nessuno vi è ancora un mondo di persone; non sono loro che hanno costruito la tragedia che sono stati costretti a vivere ed hanno tutti, nessuno escluso, la capacità di uscirne.