Presentazione di Alessandra Bartolomei Romagnoli (Docente nelle Università Pontificie Gregoriana e S. Tommaso d’Aquino - Angelicum)
Quella di mezz’agosto era una giornata speciale per l’Urbe: vi si celebrava infatti la più importante festa religiosa del popolo romano con una grandiosa processione che attraversava gran parte della città e a cui partecipavano le più alte autorità ecclesiastiche, le magistrature civili, i rappresentanti degli ordini religiosi, delle confraternite e dei sodalizi. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto l’immagine del Cristo Salvatore lasciava il Sancta Sanctorum lateranense e veniva portata in corteo sino alla basilica liberiana. Il tragitto prevedeva alcune soste, una delle quali era nella chiesa di S. Maria Nova al Foro romano, dove l’icona di S. Giovanni incontrava l’antica immagine della Vergine che vi si venerava da tempo immemorabile. Dopo questa stazione l’acheropita lateranense si ricongiungeva con la Salus Populi Romani di S. Maria la Maggiore per restare con lei sino alla mattina del 15 agosto. Così, mentre si celebrava la simbolica riunione della madre e del figlio, sembrava che potessero finalmente ritrovarsi e siglare la pace anche le diverse anime della città – quella curiale e quella municipale – spesso in lotta tra loro. D’altra parte, il culto di Maria è sempre stato il segno distintivo della pietas romana, una devozione che ha attraversato i secoli, dalle antiche basiliche paleocristiane ai cammini delle salvifiche icone bizantine, dalle associazioni laicali agli insediamenti degli ordini religiosi che hanno posto sotto l’egida mariana il proprio apostolato nell’Urbe. Maria, Madre di Dio e Regina coeli, è stata la vera Madre di Roma, patrona e punto di riferimento unitario della città.
E proprio il 15 agosto del 1425, esattamente sei secoli fa, nasceva la famiglia religiosa delle oblate di Tor de’ Specchi, che con il tempo si sarebbe imposta come l’istituto di vita consacrata femminile forse più rappresentativo del panorama cittadino. Fu infatti nel giorno dell’Assunta che Francesca Bussa dei Ponziani (la futura santa Francesca Romana) si offrì come oblata alla Vergine Maria nella basilica di S. Maria Nova, officiata dai monaci benedettini olivetani. Un affresco di Antoniazzo Romano nella cappella antica del monastero di Tor de’ Specchi raffigura Francesca in ginocchio, l’abito nero e il lungo velo bianco, mentre emette la solenne formula dell’oblazione nelle mani del priore della basilica, frate Ippolito, che fu grande protettore del nuovo istituto religioso. Con lei, a pronunciare la stessa promessa di consacrazione, era una decina di donne, mentre un gruppo di monaci bianchi assisteva alla scena. Per otto anni le oblate continuarono ad abitare presso le proprie famiglie, fino a quando non comprarono una casetta nel rione Campitelli, tra il Campidoglio e il Teatro di Marcello, e lì iniziarono la loro vita in comune proprio all’ombra dell’antica Torre degli Specchi. Anche questa nuova tappa della nascente congregazione venne posta sotto il segno della festa mariana dell’Annunziata, il 25 marzo del 1433.
Forse, non poteva esservi modo migliore di un libro per festeggiare il giubileo delle oblate di santa Francesca Romana, e il saggio di Carla Benocci assume un significato particolare in questo sesto centenario della nascita della congregazione. Bisogna tuttavia osservare che il suo non è un libro celebrativo, né di occasione, ma uno studio coraggioso e originale, che apre una nuova stagione di ricerca su Francesca Romana e la sua fondazione. In questi ultimi decenni la figura della santa è stata al centro di uno straordinario interesse storiografico, sia per la scoperta di nuova documentazione che per la valorizzazione di fonti in precedenza poco sfruttate, circostanza che ha permesso non solo di precisare entro termini storicamente più attendibili la sua vicenda biografica sullo sfondo delle complesse vicende di Roma alle soglie del Rinascimento, ma anche di comprenderne la spiritualità in rapporto con la tradizione della mistica femminile tardomedievale. Ancora poco conosciuta invece è la storia della congregazione religiosa da lei fondata, forse perché solo in tempi recenti si è cominciato a prestare la dovuta attenzione agli archivi degli enti monastici, al grande potenziale che essi rappresentano per la ricerca, non solo per quanto riguarda la storia religiosa, ma anche quella politica, culturale e sociale. Dopo la morte di Francesca, nel 1440, in breve giro di anni, l’istituto da lei fondato conobbe una rapida evoluzione, divenendo uno dei punti di riferimento essenziali dello scacchiere cittadino, in virtù sia di un rapporto assolutamente privilegiato con il papato che delle potenti alleanze parentali e di patronage che ne hanno scandito la storia. La genealogia delle Presidenti, quasi sempre selezionate ai vertici della nobiltà romana, e l’estrazione sociale delle oblate ci permettono di risalire a un fitto tracciato relazionale di potere aristocratico che avrebbe fatto di Tor de’ Specchi il punto di confluenza di risorse patrimoniali e di iniziative artistiche e caritativo-assistenziali di alto livello, tanto che la Domus di Francesca si sarebbe imposta quale grande polo di attrazione culturale e spirituale nella vita romana tra medioevo ed età moderna.
Ed è appunto di questa storia poco nota, ancora tutta da riscoprire, che questo libro si occupa. Carla Benocci affronta finalmente la vicenda plurisecolare degli olivetani di S. Maria Nova e delle oblate di Tor de’ Specchi in una prospettiva integrata, incrociando diversi tipi di testimonianze: letterarie, iconografiche, documentarie. A rendere ancora più prezioso questo volume, infatti, è il poderoso scavo nelle fonti di archivio, che permettono di comprendere come i valori religiosi e spirituali delle due istituzioni si siano tradotti nella concretezza della storia. Esso ci restituisce la realtà viva e pulsante di microcosmi monastici gelosi della propria irriducibile alterità, ma al contempo profondamente immersi nella città, di cui sono lo specchio. Non solo le cerimonie, i rituali, le grandi committenze artistiche e il mecenatismo culturale, ma anche la realtà della vita di tutti i giorni, il duro lavoro quotidiano che rese possibili queste iniziative. Quasi alzando una cortina, la ricerca si inoltra nelle segrete stanze dei monasteri e mostra le comunità da “dietro le quinte”, nella concretezza dei problemi materiali, nel fitto lavorio dell’amministrazione e della gestione, nella dinamica viva delle relazioni umane e sociali.
Ma vi è un ulteriore aspetto a rendere singolare questa ricerca, ed è lo sguardo con cui l’autrice rilegge questa storia. Carla Benocci è una colta e raffinata studiosa di architetture e giardini monastici e questa particolare sensibilità si riflette in queste pagine. Accanto agli olivetani e alle oblate, grande protagonista del libro è perciò la natura, che fu di grande importanza nella vita delle due famiglie religiose. L’ambiente vegetale viene qui riconsiderato nei suoi valori simbolici e sacrali, ma anche come spazio concreto di lavoro e di feconde trasformazioni.
Sappiamo dalle cronache olivetane che, agli inizi del Trecento, Giovanni di messer Mino Tolomeo, il futuro Bernardo, uomo colto e assai dotato, «di gentilissimi costumi» e «devotissimo christiano», scelse di ritirarsi in una proprietà di famiglia nel sito «salvatico et solitario» del Monte Accona, immerso nella campagna toscana. Erano con lui due amici, Patrizio de’ Patrizi e Ambrogio Piccolomini, che appartenevano anch’essi ai “grandi”, alle poche famiglie che a Siena avevano il diritto di tirar su le torri murate. Tagliati i ponti con il mondo, indossarono l’abito eremitico e decisero di servire il Signore «in povertà, fame, sete, freddo, nudità e semplicità di cuore». Non si trattava, a quel tempo, di un fatto eccezionale. Il Trecento fu un gran secolo per l’eremitismo. La Chiesa era sempre ricca e potente, ma anche attraversata da una crisi profonda, resa manifesta dall’esilio avignonese e dalla deplorevole sudditanza al re di Francia. Per molti spirituali il riferimento al deserto era una forma di protesta, ma anche espressione del desiderio di testimoniare un cristianesimo più povero, più semplice, più essenziale. La solitudine era la grande metafora di un radicalismo spirituale che difficilmente poteva trovare spazio nelle istituzioni esistenti. Gli eremiti che popolavano le foreste dell’Umbria, della Toscana, delle Marche cercavano di dimenticare nei selvaggi ambienti naturali i rumori di un secolo attraversato da inquietudini religiose diffuse, dove il ritorno alle origini marcava la presa di distanze dal conformismo religioso, equivaleva a un richiamo esplicito a quei valori che il potenziamento delle istituzioni aveva corrotto e impoverito. Come per gli asceti dei primi secoli cristiani, il deserto era il luogo della fuga dal mondo e del dialogo con Dio, della ricerca di un’autenticità perduta.
Ma nell’epopea monastica, fin dalle sue origini, lo spazio del ritiro fu anche occasione per “inventare”, ricreare, nuovi mondi. La santità degli eremiti avrebbe finito per trasformare il locus horridus in un locus amoenus, e il deserto sarebbe rifiorito, come il ramo secco di Giovanni Colobos negli Apophtegmata patrum, perché ciò che conta non è la dimensione fisica del luogo, ma lo spirito degli uomini che lo abitano. Così l’abba Antonio costruì un nuovo eden nella distesa assolata del Sinai e il santo patriarca Benedetto fece sgorgare l’acqua dalle rocce aride di Subiaco. Bernardo Tolomei si inserì nel grande fiume di questa tradizione millenaria: dal suo inaccessibile monte di Accona, «circondato tutto da profonde et dirupate valle», sarebbe fiorita la grande abbazia di Monte Oliveto. Grazie al lavoro dei monaci le grotte diventarono cappelle e le colline furono messe a coltivazione di vigneti e uliveti. Si ridisegnò così l’habitat di una società ideale, operosa e ordinata, come una di quelle Tebaidi raffigurate negli Atlanti monastici toscani del Quattrocento.
Nel suo libro Carla Benocci mette in parallelo l’esperienza di Bernardo Tolomei e di Francesca dei Ponziani. Come Bernardo, anche la pia signora romana avrebbe desiderato ritirarsi nel deserto, ma un prodigio le fece capire che questa scelta le era preclusa. Nel giorno di gennaio di un gelido inverno, dall’albero secco dell’orto di casa caddero due mele fuori stagione. Francesca comprese il messaggio: il suo tempo non era arrivato ed ella doveva restare nel mondo, rinunciare alla vita solitaria che tanto amava. Era ancora presto per lei. Si costruì allora il suo monte degli ulivi, una piccola spelonca nell’orto e una cella nel solarium della sua casa, in cui poteva dedicarsi alla orazione e alla meditazione. Si recava a pregare nella chiesa di S. Maria in Trastevere, davanti ai mosaici del Cavallini con le storie della Madonna che tanto la ispiravano. Ma continuò a fare anche la moglie e la madre, si immerse completamente nelle sofferenze e nei bisogni della città, mise a disposizione i beni della sua famiglia e tutta se stessa per andare incontro alle altrui sofferenze. Diventò la santa dei vicoli e dei rioni, dei malati e dei poveri, che in un periodo tra i più oscuri e violenti della storia di Roma ne curò le piaghe fisiche e spirituali. Ed è qui che i diversi itinerari di perfezione dei due santi potevano incontrarsi. Infine, anche Bernardo Tolomei aveva lasciato il suo luogo perfetto, puro e santo, per “rientrare”. Era tornato a Siena, e nel momento più tragico della pandemia si era messo a curare gli appestati, accettando di contaminarsi e sacrificarsi per amore degli uomini.
Francesca trasfuse questa sua intuizione nella fondazione di Tor de’ Specchi. Questa casa rappresentava il punto di arrivo della maturazione spirituale di una donna che era riuscita a trovare una sintesi tra i doveri del suo stato e il suo cuore di monaca. Lasciare tutto per andare nel deserto, superare i limiti e l’opacità dei doveri quotidiani: era stata questa, in fondo, la tentazione segreta che aveva attraversato la sua esistenza. Ma proprio accettando la condizione di un esilio lontano dal paradiso interiore, Francesca era arrivata alla santità. E così ella insegnò alle oblate che ogni vera perfezione non risiede in un eroismo extraumano, ma nella umiltà e obbedienza al volere divino, nel compiere il proprio dovere nel luogo che il Signore ci ha assegnato.
Per questo la sua restò una casa “aperta”, dove la liturgia era benedettina, ma lo stile di vita era caratterizzato da una forte presenza al mondo. In apparenza, l’esperienza di Tor de’ Specchi non era eccezionale: a quel tempo l’Urbe brulicava di “case sante”, comunità spontanee di bizzoche, terziarie, mantellate che conducevano una vita austera, povera e casta, fatta di lavoro manuale, di preghiera, di condivisione dell’altrui sofferenza. La differenza di questo tipo di vita rispetto al monachesimo femminile tradizionale era radicale, per la semplicità dell’organizzazione comunitaria, per la libertà da vincoli gerarchici di subordinazione, per l’assenza di formalismo. Queste comunità aperte erano sul piano organizzativo delle realtà con caratteristiche del tutto nuove, autogestite, ricche di una autonomia e flessibilità sconosciute alle antiche fondazioni monastiche e profondamente radicate nel mondo cittadino. Il gruppo primitivo delle oblate affondava le sue radici in questo complesso e variegato tessuto di devozionalità femminile, in una rete di solidarietà in cui motivi religiosi e spirituali si intrecciavano a istanze concrete di reciproco sostegno, una soluzione funzionale anche rispetto ai problemi reali di sussistenza e protezione di donne fragili e sole, sovente vedove, all’interno di una società che poggiava su equilibri assai precari.
La specificità di Tor de’ Specchi rispetto ad altre aggregazioni femminili coeve a carattere spontaneo – e che si sarebbero presto estinte – fu però nella capacità di Francesca e delle prime compagne di porre le premesse della tenuta e della continuità di una casa che si sarebbe inserita in profondità nel contesto romano. Non fu, soprattutto agli inizi, un cammino facile, e la stessa fondatrice dovette affrontare ostacoli e opposizioni al suo progetto di una comunità femminile non claustrale, che non era in linea con le disposizioni del supremo vertice ecclesiastico: alla fine del Duecento, con la costituzione Periculoso (1298) papa Bonifacio VIII aveva infatti decretato che la clausura era legge perpetua e universale della Chiesa, cui dovevano soggiacere tutte le comunità femminili. E lo stesso Eugenio IV, nel rispondere positivamente alla supplica delle oblate che chiedevano il riconoscimento del loro progetto di vita religiosa, affermò che tale concessione aveva il carattere di una deroga; si trattava insomma di un privilegio eccezionale del papa, che però non modificava la disciplina stabilita dal suo predecessore. Tale statuto particolare delle suore di Tor de’ Specchi si comprende alla luce dell’altissima considerazione di cui la loro fondatrice godeva in città. Anche un pontefice rigoroso e austero come Eugenio IV non poteva negare il suo appoggio a questa donna straordinaria.
Quella di Tor de’ Specchi era per i tempi una formula di vita religiosa avanzatissima, perché proponeva anche alle donne una via mixta, o terza via, in altri termini il superamento dell’antica contrapposizione tra azione e contemplazione, tra Marta e Maria. Dalla matrice penitenziale erano ormai maturate le condizioni di una vera rivoluzione nella concezione stessa della vita consacrata, che implicava non più la fuga dal secolo consumata nella solitudine orante della cella, ma una via di santificazione attraverso le opere, una milizia attiva e laboriosa che aspirava a una presenza effettiva nella storia e nella società. Le oblate erano le piccole eroine della vita comune, che percorrevano le vie e le piazze della città per lavorare e mantenersi, recare sollievo e assistenza ai poveri e malati. Emergeva insomma un diverso ideal-typus di donna religiosa, i cui codici identitari e di comportamento rinviavano al valore della medietas, a una misura di discretio assai lontana dall’estremismo ascetico coltivato da tante eroine medievali. Per il proprio perfezionamento personale a una brava suora si richiedevano la modestia, la sobrietà, un atteggiamento di distacco dai beni del mondo, obbedienza alla superiora, solidarietà pronta con le consorelle. Equilibrio di vita ravvisabile nella giornata delle suore, scandita dalla preghiera e dal lavoro manuale, ma anche da momenti assistenziali ed educativi che avevano una parte importante nel carisma di fondazioni sensibili all’apostolato fra le giovani. Da casa si può uscire: basta tenere gli occhi bassi.
Sorge quindi una domanda: perché Francesca guardò ai monaci olivetani? La sua scelta era indubbiamente in controtendenza rispetto a un movimento penitenziale femminile saldamente gestito dai grandi Ordini Mendicanti, i francescani e i domenicani. Erano queste le famiglie religiose verso cui si rivolgeva in prevalenza il mondo delle terziarie. Bisogna tuttavia ricordare che il Quattrocento fu un gran secolo per Monte Oliveto, e ben lo si comprende leggendo questo libro. Come tutti i regolari, feriti dal trauma del grande scisma, anche la famiglia di Bernardo Tolomei visse un momento di crisi e di riforma interna, ma quello fu anche un periodo straordinario di crescita ed espansione, in cui le fondazioni si moltiplicarono in Italia e all’estero. I monaci erano noti e stimati per il rigoroso stile di vita, la cultura, e il sincero anelito di riforma della Chiesa. Caterina da Siena, come mostrano le sue lettere, aveva avuto relazioni profonde con loro e negli scriptoria monastici si copiavano le Rivelazioni di Brigida di Svezia. In Francesca erano vive le stesse aspirazioni di riforma e con i monaci condivise lo stesso amore del silenzio e della cella, da loro imparò la bellezza della liturgia e della lectio divina.
Ma, forse, per spiegare il rapporto che unì Francesca a questi uomini dotti e severi bisogna cercare un altro motivo, più profondo, che viene indicato in questo libro, grazie a una felice intuizione dell’autrice: il vero punto di unione fu nel comune amore per la terra. I monaci bianchi erano agricoltori e un bravo abate olivetano doveva essere capace di far coltivare i campi, bonificare le vigne, provvedere di bestiame i poderi. E fu questo, in fondo, il lavoro di Francesca. I bovattieri Ponziani non appartenevano alla grande nobiltà feudale (il cui prestigio, peraltro, si era molto appannato per la lontananza del papato), ma rappresentavano il ceto produttivo della città, la spina dorsale della sua economia, ed erano direttamente coinvolti nella vita politica del Comune romano. Prima del risveglio rinascimentale Roma non era un centro di mercanti e banchieri come Firenze o Siena, ma una città ancora eminentemente agricola, disseminata a macchie di leopardo dentro la cerchia delle Mura Aureliane. L’abitato era come rannicchiato dentro l’ansa del Tevere, il fiume sacro che era l’arteria vitale della città, ad essa necessario, e al tempo stesso pericoloso. Secondo Vespasiano da Bisticci, le greggi pascolavano indisturbate in prossimità delle rovine del Campo Vaccino, mentre orti e vigneti si incuneavano tra le case a garantire un’economia di sussistenza. Nel contado, immediatamente fuori porta, erano le grandi proprietà fondiarie degli enti monastici e di alcune facoltose famiglie, come appunto i Ponziani. Il loro palazzo al Ponterotto era un vero e proprio complesso residenziale, capace di assolvere, sotto il profilo urbanistico, a una molteplicità di funzioni. Dimora per la famiglia, innanzitutto, da intendersi in senso esteso: nel complesso coabitavano i suoceri con i loro figli e le nuore, ma anche una moltitudine di servi e di ancelle, addetti non solo alla manutenzione della casa, ma anche agli allevamenti e alle campagne. In città erano conservati i prodotti agricoli, il vino e il frumento, in unità immobiliari situate nei pressi dell’abitazione principale, e lì venivano smerciati. Nelle stalle erano alloggiati gli animali, bestie da soma o da lavoro, come quelli che affollavano in gran copia gli incubi notturni della santa.
Fu questa la vita di Francesca, di operosa gestione di una grande casa, né la sua esistenza cambiò sostanzialmente anche dopo il suo ingresso a Tor de’ Specchi. Come sospesi tra la terra e il cielo, gli affreschi dell’antica cappella del monastero ci mostrano la “doppia vita” della beata: su un fondale color lapislazzulo il registro superiore del ciclo raffigura l’orizzonte paradisiaco delle estasi e delle visioni, quello inferiore racconta il vissuto quotidiano di una donna che con le sue compagne andava a lavorare i campi e le vigne, per sostenere la comunità e provvedere ai poveri e ai malati.
Qualche anno fa Arnold Esch è riuscito a dare un nome, e quindi spessore di storia, ai personaggi raffigurati da Antoniazzo Romano, Carla Benocci descrive invece il paesaggio vegetale che fa da cornice alle scene del ciclo quattrocentesco: i cipressi, le palme, gli olmi, i pioppi bianchi, ma anche le piante da frutto, i melograni, i fichi, i gelsi mori, i mandorli, gli aranci e i limoni. E non manca neppure la vigna coltivata fuori porta S. Paolo, con i suoi filari ben ordinati, dove per un miracolo della loro madre le oblate vendemmiano in gennaio. Francesca possedeva la sapienza tradizionale e tutta femminile delle erbe, conosceva le proprietà curative della ruta e della maiorana e per secoli le suore avrebbero continuato a produrre, in un grande vaso di marmo custodito ancora a Tor de’ Specchi, il suo miracoloso unguento. La pia tradizione fu gelosamente difesa nella casa, nonostante il sospetto crescente che la prima età moderna riservò all’antica medicina delle piante.
Nel corso dei secoli la fisionomia di Tor de’ Specchi sarebbe molto cambiata. In origine, dietro il lungo muro brunito che dal Teatro Marcello sale verso il Campidoglio, c’era un piccolo villaggio di case e di orti abitato dalle prime oblate. Il muro venne tirato su agli inizi del Seicento per assecondare le disposizioni del Concilio Tridentino in merito alla vita religiosa femminile. Venne attuato un grande progetto di ristrutturazione architettonica del complesso monastico con maestranze altamente qualificate, dove si è riconosciuto anche l’intervento del Maderno. Fu allora che Tor de’ Specchi assunse l’aspetto di una grande Domus e divenne la “Nobil Casa delle Oblate”, come era conosciuta a Roma. E tuttavia questi aggiornamenti non modificarono nella sostanza il carisma dell’istituto, il suo spirito. Tenacemente fedeli all’insegnamento della loro madre, le oblate conservarono una forte presenza ecclesiale, una generosa apertura ai bisogni del prossimo, ma anche un profondo legame con la terra. È un grande merito di Carla Benocci aver richiamato, in queste pagine, questo aspetto così importante della plurisecolare vicenda di Tor de’ Specchi. Le aristocratiche signore che vissero nel monastero furono donne di preghiera, ma anche grandi lavoratrici, e soprattutto autonome, capaci di autogestirsi e di amministrare saggiamente le loro proprietà immobiliari e terriere. Come osserva acutamente la studiosa, i loro investimenti non furono mai orientati a un’accumulazione di capitali e a guadagni ingenti, ma improntati a un grande senso della misura e della tutela e conservazione del loro patrimonio. Non pauperiste, ma sobrie e rigorose, le principesse Ruspoli, Doria Pamphilj, Pallavicini gestirono con intelligenza e oculatezza l’eredità ricevuta.
Chi visita oggi Tor de’ Specchi ripercorre la storia di Roma dalla fine del medioevo sino ai nostri giorni: gli antichi affreschi, la vecchia torre con le sue luci, il chiostro e il piccolo forno del Quattrocento, i grandi e solenni ambienti barocchi, le cappelle, le tante testimonianze lasciate dai personaggi che hanno frequentato e amato questa casa, autentico crocevia di santità. A Tor de’ Specchi hanno trovato accoglienza e spesso anche aiuto concreto figure che hanno segnato la vicenda di Roma, da Filippo Neri a Giovanni Leonardi, da Camillo de’ Lellis a Francesco di Sales, fino a don Giovanni Bosco, che “salvò” la comunità nel periodo drammatico delle soppressioni.
Ma questo libro ci ricorda finalmente come dietro allo splendore di Tor de’ Specchi, autentico scrigno di tesori e di memoria, ci sia stato il lavoro silenzioso e quotidiano di generazioni di oblate che questo luogo hanno abitato e amato.
Risposta (Carlo Pavia)
Caro Carlo, rispondo pubblicamente. Dei 666 ipogei (volutamente... 666) da me studiati, documentati e trattati nelle centinaia di conferenze tenute in questi (primi) 50 anni di Roma sotterranea, nel dossier proposto per questo libro se ne contano solo 100 (anzi, 102, così come giustamente hai notato). Sono chiaramente i più belli, i più suggestivi e i più emblematici; si tratta di veri e propri monumenti. E gli altri? Anch’essi posseggono una grande importanza ma non sono affascinanti al pari dei primi. Si tratta di brandelli di una Roma antica estremamente utili per gli archeologi (specialmente quelli specializzati in topografia come me) ma affatto interessanti per il pubblico generico. Per tale motivo non sono pubblicabili se non su testi tecnici o riviste apposite.
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