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purpurea lux
SIGHANDA

Introduzione
Barbara Aniello
Docente Incaricato Associato
Pontificia Università Gregoriana


Purpurea Lux non è un viaggio nel paesaggio, attraverso la multiforme cromia delle stagioni, né una riflessione sul tempo e i suoi ciclici, eterni ritorni, ma una sfida e un appello a varcare i confini della percezione, volgendo lo sguardo dall’apparenza ex extra, alla sostanza, ad intra. Nell’itinerario, appositamente concepito per il neonato spazio espositivo di Palazzo dei Priori, si snodano le stanze intitolate Autunno, Inverno, Primavera, Estate, dove si trova quel che non ci si aspetta: nessun panorama naturale, nessun personaggio allegorico-figurativo, né tantomeno quei tipici elementi decorativi che connotano l’anno, con fiori, foglie, soli, fiocchi di neve. Tutto ciò che è vedutismo o realismo è scartato, eppure persino l’astrazione resta un’etichetta troppo ingabbiante per decodificare la pittura di Sighanda.
È come se una remota eco del fluire delle ore e del trascolorare delle stagioni si condensasse in un minuscolo frammento: da un lato innalzato a protagonista, dall’altro scandagliato con rigore nel suo vasto universo interiore. Sighanda dischiude un mondo intero nel lacerto più minuto, rivelando il macrocosmo che pulsa nel microcosmo. Non solo: l’essenza affiora dalla sostanza, come luce che si fa materia.
Come uno speleologo, un erborista, un chimico o un filosofo, Sighanda estrae la forma dall’informe, plasma il pigmento grezzo, armonizzando ciò che è disgregato, si immerge nel disfacimento per poi ricomporlo. Non si tratta di e-ducare per mezzo della natura, ma di tuffarcisi dentro, riscoprendone l’essenza: così offerenti e sofferenti si impara a morire a se stessi, come in Autunno; così la centralità, l’equilibrio nel ghiaccio di Inverno permettono di riscoprire il proprio focus interiore; così l’energia vitale torna a ricompattarci e rigermogliarci, esprimendo tutto il potenziale di sé con Primavera; così il sentore di evanescenza, volatilità dei germogli essiccati al sole in Estate diviene pretesto per assaporare la leggerezza e la libertà. Nel panorama dell’arte contemporanea, Sighanda inventa qualcosa di nuovo, inaugurando un’inedita corrente artistica, quella dell’Estrattismo, in cui, al contrario dell’astrazione, il procedimento è quello di chi indaga e si immerge nel fantasmagorico universo organico degli elementi, incarnati da pigmenti naturali direttamente tratti dalle pendici dell’Etna, dai boschi svizzeri, dai muschi della Faggeta di Soriano, o dalle rocce di Faleria, per far emergere l’essenza delle cose, non per trasfigurarle. Quello che viene estratto dal mondo della natura non è un semplice colore, ma un elemento pittorico che contiene in sé una memoria geologica, biologica e culturale. Se l’Astrattismo riduce, l’Estrattismo amplifica; se il Figurativismo ritrae, l’Estrattismo rivela. In questo senso, Sighanda propone un nuovo paradigma ecologico e poetico, dove l’arte non è più astrazione, né rappresentazione, né concettualizzazione, ma immersione nella vita della materia stessa.
Con un sapore e sapere quasi fiammingo del particolare, dovuto anche alle origini belga della pittrice, la vibrazione prende una strada imprevista, la trama si dirada o si infittisce, lo spessore si increspa o si innalza e, a seconda del vento o della luce, il fondo avanza in primo piano e tutto prende forma e sbalzo, scatto improvviso, verticale, o ripiegamento melodico curvilineo, orizzontale.
Qui la pittura diviene filosofia, fisica, poesia. Perché non è nei margini delle forme che si rivela il senso, ma nell’intimo vibrare della sostanza, che l’essenza si fa visibile.
Il concetto che il piccolo racchiuda il grande e che nella sostanza si mostri l’essenza risale a Platone, che indagava l’idea nella materia, passa per Ficino che intravede il divino nel frammento naturale e approda a Florenskij che rilegge la rivelazione del tutto nel dettaglio.
Lo scopo della mostra è invitare a vivere la propria natura, osservando il paesaggio “da dentro” per guardarsi “dentro”. Sostare sulla soglia del visibile permette di dischiudere realtà profonde e invisibili dell’essere umano che si specchia in una natura nella quale si immerge come un Narciso, ma al contrario: non per perdersi nella spasmodica contemplazione del sé, ma per volgere lo sguardo alla realtà profonda delle cose, incontrando i principi regolatori dell’Universo. Il visitatore non muore ingabbiato nella natura in cui si diluisce, non è metamorfizzato in quel fiore che si piega annegando nel suo acquatico riflesso, ma si apre verso l’alto, l’altro, l’ignoto, oltrepassando ogni forma di autocompiacimento ed approdando alla vera, salvifica contemplazione.
Di più. Sighanda elegge a filtro del suo sguardo il bagliore mistico e regale della luce porpora, posta sull’orlo dello spettro visibile e confinante con l’ultravioletto, simbolo di soglia e mistero. Italo-svizzera, di origine belga, l’artista, dopo aver viaggiato in tutto il mondo, trova finalmente nell’Etruria meridionale questa sintesi luminosa, Purpurea Lux, responsabile di una vera e propria danza che l’iride compie sull’orlo del percepibile, sfiorando l’ignoto e invitando lo sguardo ad andare oltre. Dopo aver attraversato e raccolto impressioni luminose ad ogni latitudine, compresa quella nord e centro-africana, Sighanda, continuando a vivere all’estero, approda di tanto in tanto nel viterbese, ricca di tutto il suo bagaglio cosmopolita, scegliendo di fondare qui uno dei suoi ateliers per l’unicità del riflesso della luce sul paesaggio di etrusca memoria, che diviene per lei un’ulteriore palestra per lo sguardo, nell’esercizio costante di interiorizzazione del visivo. Così Autunno, Inverno, Primavera, Estate divengono vere e proprie “stagioni dell’anima”, intimamente legate all’essere umano.
L’Autunno diviene preannuncio di morte e al tempo stesso annuncio di vita, offrendo stimoli insieme consuntivi e rigenerativi, degradanti e nascenti, disgreganti e vivificanti. La stagione mostra tutta la sua tensione tra fine e rinascita, tra geometrie irregolari e forme organiche che si avvicinano alla dissolvenza e si preparano al passaggio del rinnovamento.
Se l’autunno è disgregante e centrifugo, centripeto è l’Inverno che non conosce forme irregolari, bensì si condensa e si aggrega in regolarissime geometrie dalle figure ben riconoscibili e dai contorni esatti, spigolosi, quasi taglienti. Vi si ritrova tutto il vissuto montano dell’autrice, che vive tra le Alpi svizzere, a stretto contatto con la gelida, rinvigorente natura. Sospeso tra stato solido e liquido, Inverno è tutt’altro che fisso e statico, se pensiamo che basta un raggio di sole a comprometterne il fragile equilibrio di cristallo. Questa stagione invita alla concentrazione, al raccoglimento, alla cura del nucleo, ma in una forma dalla potenzialità dinamica che solo temporaneamente e terapeuticamente si stringe su se stessa. L’apparente fissità internamente si apre ad una provvisorietà dinamica che offre il braccio allo stadio successivo.
Come l’Inverno, la Primavera è centripeta, concentrata, aggregante e regolare. I suoi germogli, visti da dentro, subiscono rapide mutazioni. Lo sguardo annega nei bulbi floreali, che divengono fiori potenziali, sprigionando una forte energia vitale. È la stagione dell’espansione, della fluidità organica, dell’apertura alla vita che coglie l’invernale invito a guardarsi dentro per poi esplodere, rinnovandosi, verso il fuori.
Una volta esaurita l’estroflessione primaverile, l’Estate, scompigliata dal vento e incendiata da un calore vibrante, si offre all’illusione ottica prodotta dalla rifrazione della luce. Nel paesaggio che si dissolve e si frantuma, etereo e centrifugo, sorpreso sempre in movimento, in eterno divenire, l’artista riversa tutta la sua cultura siciliana. La luce estiva inganna e affascina, offrendo una seducente danza ai limiti della percezione, trasformando il solido in volatile. Pura vibrazione eterea, sonora e cromatica, l’Estate invita alla leggerezza e alla dissoluzione, come l’Autunno, centrifugando l’essere e invitandolo all’espansione del sé.
Nel frenetico uso di acquerello e matite su supporti diversi – tele, carte, installazioni – si assapora un’interazione sensoriale inusitata – visiva, olfattiva, tattile, uditiva – in cui la percezione dello spazio si nutre degli opposti: liscio/ruvido, silenzioso/sonoro, caldo/freddo, invitando lo spettatore a “vedere” con le mani, ma anche a “percepire”, con naso ed orecchie, ciò che sfugge alla pura contemplazione oftalmica.
In questo senso le quattro installazioni al centro delle stanze, fungono da cassa di risonanza del concerto visivo, tracciando una vera e propria melodia sinestetica: accolti dal caldo sottobosco autunnale, dal sentore dolciastro e speziato e dalla sensazione umida e pungente amplificata dalle pareti centrifughe e brulicanti, siamo traghettati verso la gelida luce invernale, dall’odore limpido e dalla sensazione quasi rabbrividente, dai colori freddi e dalle geometrie riflettenti. Qui, il tremore lascia il passo al fremito di bulbi primaverili colti nell’atto di emergere dal battito di una terra pronta ad aprirsi, rilasciando un inteso odore di humus che trascolora nell’accogliente ed erbaceo sentore del fieno lasciato ad essiccare al sole, mentre il mattino svanisce nel tramonto di rami nostalgicamente eretti verso la luce che li disgrega e li sfuma.
Paradossalmente si potrebbe attraversare la mostra anche ad occhi chiusi e coglierne, solamente attraverso il profumo, l’essenza del messaggio. Basterebbe questo elemento a connotare una narrazione già complessa e stratificata, se non fosse che l’ambient soundscape, composto da Michele Voltini e da Sighanda stessa, ci accoglie olofonicamente da lontano, in un crescendo emotivo e uditivo che arricchisce ulteriormente le dimensioni sensoriali della percezione e della corrispondenza delle arti.
La sottile trama dei suoni si fonde con la vibrazione dei colori, restituendo il ritmo mutevole delle stagioni e il respiro del tempo, in un equilibrio instabile tra fragilità e potenza, tra cangianze e fermezze. L’avanzata tecnologia di Holos System, inventata dall’ingegnere acustico Fabio Brugnoli, permette una fruizione sonora in 3D, superando la percezione binaurale e rafforzando nell’ambiente ancor più quella sensazione immersiva già espressa a livello di olfatto, vista e tatto.
Attraverso questi mezzi, Purpurea Lux ci conferma che il vero paesaggio è quello interiore, più rarefatto che ritratto, più evocato che descritto.
Purpurea Lux è un omaggio alla Tuscia, terra di tramonti ineguagliabili che svelano le forme delle cose, rivelandone la sostanza nascosta. Solo uno sguardo nutrito da stimoli ed esperienze internazionali, come quello di Sighanda, poteva catturare la qualità unica di una luce che diventa protagonista di un linguaggio che non è etichettabile come astratto, anzi è talmente iperrealistico da sfociare più nella risonanza interiore che nella mimesis esteriore: così ciò che ad extra è foglia, fiore, ghiaccio, paglia si offre ad intra come organico, geometrico, tagliente, volatile, sul piano fisico, ma anche fluido, caotico, evocativo, informale, riflessivo, libero, sul quello metafisico.
Un percorso, questo, che non si limita a mostrare, ma che invita a percepire, a lasciarsi attraversare dal bagliore mistico della luce porpora, con il fine di trasformare la vista in contemplazione. Così Purpurea Lux diventa un simbolo di confine, bagliore, miraggio, invitando lo spettatore a tuffarsi nel micro-macro cosmo dell’ancora visibile per approdare al non più visibile. Purpurea Lux svela non solo la forma, ma la sostanza dalle cose: rivela, dissolve, rigenera. È il confine tra ciò che vediamo e ciò che ci è negato vedere, ma consentito percepire, è l’immenso che si rivela nel minimo, è quel raggio che invita a varcare la soglia del visibile per contemplare l’invisibile.