I PIRATI DELLA BELLEZZA - NEI LUOGHI DI DEMETRA

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Nell’ambito dell’Anno degli Etruschi
I pirati della bellezza


Una iniziativa Tusciaweb
in collaborazione con
Università degli Studi della Tuscia
e Caffeina Cultura

Con il patrocinio della
Soprintendenza dei Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale

Antonello Ricci e Davide Ghaleb
presentano

I pirati della bellezza – 12 passeggiate/racconto all’Etrusca

Primo appuntamento
Domenica 25 gennaio
Vetralla – Macchia delle Valli

NEI LUOGHI DI DEMETRA
Ombelico del Mondo

Evento realizzato con il patrocinio del
Comune di Vetralla

Appuntamento ore 10.00
Km 2,900 strada provinciale Blerana (direzione Cura-Blera)
Nei pressi della chiesetta della Madonna della Folgore

Porgerà il saluto dell’amministrazione comunale il sindaco di Vetralla
Sandrino Aquilani

“Pillole” storico-archeologiche a cura di
Maria Gabriella Scapaticci

Direttrice Museo Archeologico Nazionale Tarquiniense

Letture di
Pietro Benedetti e Olindo Cicchetti

Percussioni «en plain air» di Roberto Pecci
Racconta e conduce Antonello Ricci

Il biglietto consiste nell’acquisto del volume fresco di stampa I pirati della bellezza: romanzo degli Etruschi secondo A. Ricci
o di altro libro a scelta dal ricco catalogo di
Davide Ghaleb Editore

info e prenotazioni tel. 3206872739

etruschi-passeggiate@tusciaweb.it

IMMAGINI




Da Antonello Ricci per Tusciaweb

La strada è la provinciale che dalla Cura (di Vetralla) conduce a Blera. Direzione Blera. Al km 2,900 parcheggia l'auto. Sulla sinistra la chiesetta della Madonna della Folgore. Sulla destra una strada s'inoltra nel bosco. Passeggiata comoda molto, e molto pittoresca. Ti riporta echi delle pagine consacrate a Vetralla da un grande archeologo e viaggiatore di età romantica: George Dennis. Più belle le rinomate donne di Viterbo, si chiedeva l'inglese, o quelle locali? Beh, «uno ha la voce/ l'altro mangia la noce». Così va la vita. Ma intanto, e non sai come, oltrepassato un troncone residuo di via cava ti ritrovi da presso a un suggestivo crocchio di scogli muschiati. Il peperino dei monti Cimini qui regna sovrano. E dappertutto segni persistenti, tenaci della presenza umana. Il lavorio del piccone: sono i resti di una cava di età moderna in realtà, ma i tagli ammiccano ai gradoni di una cavea teatrale. Ora la strada si fa sentiero e scende, torcendosi attorno alle rupi come una chiocciola. È storia di roccia redenta in pietra – questa – ma anche di acque. Un vecchio fontanile. Asciutto ormai, ma testimonia secoli di fedeltà al sito: generazioni di allevatori e contadini intenti per millenni a un loro umile, prezioso lavoro quotidiano: vasca di abbeveraggio per le bestie, piano inclinato per lavare e risciacquare i panni. Secondo la rigorosa legge della tradizione chiamata ricasco Un ultimo giro e sei giù, ai piedi della scogliera: il santuario è qui. La vasca per l'acqua rituale ancora in situ. Asciutta anch'essa, ma per secoli la sacerdotessa vi attinse compiendo le sacre prescrizioni. Resti di sepolture. E poi. Improvviso. Quasi dissimulato. Un singhiozzo della terra. Un inghiottitoio stretto stretto, incassato tra pieghe e slogature della parete naturale: eccolo, il tempietto stupefacente. Lo intravedi, lo perdi, torni a contemplarlo. La rupe ne fa custodia. E al tempo stesso lo rivela: elegante misterioso scrigno. A colpo d'occhio lo si potrebbe anche scambiare per il modesto “bottino” di un qualunque acquedotto di primo Novecento. E invece ti riporta al secolo III avanti Cristo (sia chiaro: a monte della fattura di questo ellenistico sacello l'intero sito allude a secoli di culto ininterrotto). Se lo guardi bene infatti, si mostra riccamente modanato, prezioso come un'ara. Da un lato sembra affondare fino a perdersi nelle profondità dello scoglio vivo, dall'altro inscena un tripudio architettonico (seppur su scala minima). Ombelico universale, esso garantì ai suoi tempi il contatto fra i tre regni: inferi terra cielo. Eh sì, dovevano proprio saperla lunga, questi Etruschi. E dovevano pur saperla raccontare bene. Mentre noi uomini dell'oggi sembriamo aver smarrito quella loro peculiare sapienza – tellurica ctonia ineluttabile – nell'arte di sintonizzarsi/evocare il genius loci, quel loro sentimento del paesaggio come spazio epifanico del sacro. Sapevano molto bene, gli Etruschi, che l'uomo vive (e sopravvive) a un crocevia di forze. Dovendo spesso piegar la testa e portar soma sulle spalle. Così che infine (e certo non a caso) è proprio qui – nei luoghi di Demetra – che mi ritorna in mente quel passo di Curzio Malaparte sul grembo delle donne etrusche come “porta” sul regno dei morti. E proprio a cospetto di questo umido sacello, che ancora sa di malattia e di invocazione, di guarigione e fertilità, di ex-voto e promesse sacrificali; qui nei luoghi di Demetra (madre di Persefone, vergine rapita e poi “restituita” da Ade) dea delle stagioni e del ciclo agricolo; in questa grommata penombra che pure splende della stessa luce di Selinunte e del mistero di Eleusi e che profuma dell'iniziatico ciceone alla farina d'orzo e menta; qui tornano a risuonare – a casa loro – i versi altissimi dell'Inno omerico e della più (mi sia concesso) “romantica” Metamorfosi di Ovidio. Qui è dove tutto torna a compiersi. Muore e rinasce. La dea seduta in trono, debitamente agghindata. Immaginiamole la spiga di grano tra le dita della mano mutila.