Prefazione di Eros Francescangeli

La quasi decennale amicizia con Antonello Ricci ha contribuito, senza dubbio, a rinsaldare il mio legame con la città di Viterbo. Un rapporto particolare, stretto e rafforzatosi sotto l'egida del dio Marte e della musa Clio. Incontrai per la prima volta Viterbo nel 1993, per via di una “cartolina azzurra” che mi arrivò a casa, intimandomi, celata nell'acronimo Sarvam, la destinazione per il mio ormai improcrastinabile «addestramento militare». Le marce, le prove per il giuramento, la libera uscita (che non coincideva, quasi sempre, con quella dei giovani viterbesi), le ronde (quelle militari, non le odierne pagliacciate dei neo-pseudo-squadristi variocamiciati), le file ai telefoni pubblici (i cellulari c'erano già ma per pochi e antipatici privilegiati) furono, per me, un tutt'uno con la città. Una città che, nel frattempo e negli anni immediatamente successivi, mi veniva restituita – dalle carte d'archivio studiate – come uno dei principali “teatri di guerra” del conflitto civile che nel 1921-22 contrappose i fascisti agli antifascisti; confermandomi l'impressione di una città divisa nel presente perché divisa dal passato. Una città storica e bellica. Una città, al di là delle apparenze, trasudante da ogni suo poro un passato conflittuale.
Tra le diciassette nuove province volute dal fascismo e da Mussolini nel 1927 c'era – come noto – anche quella di Viterbo. Non poteva essere altrimenti. Il rango di sottoprefettura alle dipendenze amministrative della capitale stava stretto a una cittadina che fino a una sessantina di anni prima era stata, assieme a Civitavecchia, sede circondariale della provincia del Patrimonio e a una classe dirigente che, oltre ad ambire alle differenti prebende e agli onori connessi allo status di capoluogo, era conscia – o quantomeno aveva sentore – della sua alterità dalla città eterna. E Viterbo è, a vari livelli, una città altra. Come ogni città, si dirà. No, Viterbo – al pari di Parma, Sarzana, Ancona, Livorno e la “gemella” Civitavecchia – è un po' più altra. E quando, chiamato da Antonello, nel gennaio del 2001 tornai a Viterbo per presentare Arditi del popolo1 ne ebbi conferma. La sala era gremita. E non solo in virtù della popolarità dell'anfitrione e delle sue non comuni doti di organizzatore culturale. La città non aveva dimenticato un aspetto singolare della propria biografia: la resistenza armata alle sopraffazioni delle squadre in camicia nera del luglio 1921. Il primo episodio di resistenza antifascista della storia. Un primato del quale, giustamente, la Viterbo democratica – aggettivo da intendersi nell'accezione suggeritaci dall'etimologia e con una funzione delimitante rispetto alla Viterbo “tricolorata” (prima) e “nera” (poi) – ne andava e ne va orgogliosamente fiera. Anche grazie a persone (militanti politici e/o studiosi) come Angelo La Bella, Assuero Ginebri, Renato Busich, e altre ancora, il filo rosso della memoria non si era spezzato. La comunità-sotto-assedio (in un unico vocabolo, alla tedesca) era riuscita a trasmettere ai posteri la memoria dell'evento e a trasformare l'accerchiamento fascista e l'organizzazione della resistenza in reminiscenza epica. Ma – come nel caso della Troia omerica – si trattava del ricordo di una sconfitta. E in quanto tale, anche nel secondo dopoguerra, fu relegato sullo sfondo dalla memoria istituzionale, più incline a celebrare le vittorie (poco importa se, come nel caso della Resistenza, “mutilate”). Un ricordo forzatamente sotterraneo, dunque, proprio come le acque di Viterbo, sottomesse dal potere, sempre più misconosciute (e cantate magistralmente da Antonello Ricci).
Bene, la memoria sotterranea dell'assedio, l'epopea della milizia ardito-popolare agli ordini del tenente di fanteria Domenico Adolfo Busatti (che, fortunatamente, non fece la fine di Ettore, facendo così evaporare le sue sembianze mitiche) e quel finale funesto – da tragedia greca, appunto – dove fatalità volle che i troiani assediati (o i greci assedianti) uccidessero un innocente la cui madre, improvvidamente, stava conducendo sotto i torrioni, non un grande cavallo di legno, ma la sua Alfa Romeo “Torpedo”, si sono dapprima sfaldati e poi ricomposti sotto una mole di carte d'archivio che, negli ultimi anni, hanno prodotto una serie di studi di differente natura (divulgativa, militante, scientifica). Nonostante l'assenza di una monografia specifica (il pur pregevole Sottoassedio a cura di Silvio Antonini è, ad ogni buon conto, un “libretto di sala” utile per rendere edotti gli spettatori sugli episodi messi in scena),2 sui «fatti di Viterbo» del luglio 1921 esiste ormai una produzione di testi accettabile. E tra questi c'è anche – per l'appunto – la pièce teatrale Sottoassedio. Viterbo 1921-22, la cui visione, ricordo, mi entusiasmò e mi affascinò non poco per la sua capacità di ibridare codici linguistici tra loro apparentemente distanti, realizzando un'opera di teatrostoria o storiateatro.
Come scritto nell'avvertenza, il testo è quasi interamente progettato e costruito attraverso una puntuale analisi delle fonti coeve: dai fonogrammi della sottoprefettura, alle carte processuali (scovate e rielaborate con rigore metodologico), dagli articoli dei periodici, ai manoscritti di vario genere, dai manifesti alle fotografie. Una modalità costruttiva – una vera e propria “natura”, la chiama Antonello – che, rispondendo ai desiderata dell'autore, non può non essere avvertita dal pubblico. Come è senz'altro percepibile la polifonia dei racconti, quelle «storie d'una estate insanguinata», in ogni caso «storie d'Italia» (così le definisce Antonello ne Il libro dei debiti),3 i cui strascichi si protrassero per anni con una forza inerziale straordinaria.
Non è questa la sede per ricostruire minuziosamente quelle storie. Storie di persone, con le loro emozioni, i loro assilli, i loro tentennamenti, le loro illusioni, il loro dolore. Credo, invece, sia il caso di contestualizzarle, come di riflettere sulla «consapevolezza» – asserita da Antonello all'inizio del terzo atto – che il fascismo non fosse «estraneo al dna locale, alla pax campanilistica». Il fascismo viterbese cominciò ad affermarsi nella primavera-estate del 1921 grazie al sostegno militare degli squadristi umbri e della provincia romana (guidati da Giuseppe Bottai e Ulisse Igliori) e all'appoggio politico dei proprietari terrieri (gli «agrari», come erano chiamati). Inizialmente, venne dunque percepito dalle schiere più umili della popolazione viterbese – ma anche dalla classe dirigente locale – quasi fosse un corpo estraneo (geograficamente e socialmente estraneo) al tessuto cittadino. Dopo i fatti del luglio 1921 e il triste epilogo (con la conseguente repressione nei confronti di un arditismo popolare ormai screditato e isolato) fu possibile assistere a un progressivo avvicinamento della città verso il fascismo. Nell'estate del 1922 il movimento mussoliniano era già insediato dentro le mura civiche e le autorità politiche – che in quest'operazione di deantifascistizzazione svolsero il ruolo di battistrada – lo tenevano, rispetto l'anno precedente, in ben altra considerazione.
Non deve stupire dunque che taluni – perfino ex anarchici come Oreste Bendia – siano transitati nelle file avversarie, distinguendosi (con lo zelo tipico dei “voltagabbana”) come accesi anti-antifascisti, ricorrendo a forme estreme di violenza. Metodi di lotta politica, del resto, utilizzati anche dall'arditismo popolare. L'antifascismo viterbese, infatti, non era certo restato a contemplare gli eventi con le mani in mano: se il 5 settembre del 1921 venne ucciso il fascista Melito Amorosi, il 15 giugno dell'anno successivo la stessa sorte toccò allo squadrista Luigi Pellizzoni (la cui morte fu il pretesto per assassinare Antonio Tavani). Se ciò sia riconducibile a questione “genetica” (il dna cui fa riferimento Antonello) non so dire; è tuttavia certo che episodi simili si verificarono anche altrove. Il passaggio di alcuni “sovversivi”, specialmente se pregiudicati, da una parte all'altra della barricata – perché delusi da una rivoluzione promessa ma mai tentata o perché decisi a salire su quello che ormai era percepibile come il “carro dei vincitori” (e le due opzioni non erano necessariamente alternative) – non fu una prerogativa del capoluogo della Tuscia. E, si badi, il fenomeno della “capitolazione” al fascismo non riguardò solamente la “base”. Ad esempio, tra i dirigenti nazionali degli Arditi del popolo, soprattutto dopo il 1924, “mollarono” figure del calibro di Vittorio Ambrosini e Giuseppe Mingrino, che divennero – come documentato dagli studi di Mauro Canali (Le spie del regime) e Mimmo Franzinelli (I tentacoli dell'Ovra) – confidenti della polizia politica. Mentre a livello locale, la medesima “carriera” spionistica venne intrapresa dal deputato socialista e sostenitore dell'arditismo popolare viterbese Epifanio Antoci, nome in codice Catullo (nemmeno i poeti furono lasciati in pace!) e definito da Canali «uno dei collaboratori più antichi» della polizia politica. Brutte storie. Pur sempre «storie d'Italia».
Ovviamente – e per nostra fortuna – ci furono anche persone quali Domenico Adolfo Busatti o Duilio Mainella (mazziniano e, a modo suo, classista) che non vollero associarsi – anche se ne avrebbero avuto l'opportunità – al fascismo trionfante. Figure svettanti per statura morale. Persone d'altri tempi. E, proprio tramite Mainella, il ritratto che Antonello Ricci traccia di queste figure è un ritratto di gente sobria e coraggiosa (si veda l'alterco con Bottai), coerente e ostinata, degna di sedere, come recita l'iscrizione di Mainella sulla lapide di Antonio Tavani, nel «congresso dei liberi». E a costoro – come al drammaturgo che li ha rianimati, traendoli dalla polvere degli archivi – dobbiamo il nostro ringraziamento.