CI VEDIAMO DA MADONNA CORNELIA
Passeggiata-Raccondo di e con Antonelli Ricci

HOME COLLANE EVENTI PRODUZIONI MUSEO
LIBRI ON-LINE FILMATI NOVITÀ CONTATTI

Immagini realizzate durante la Passeggiata-Racconto "Ci vediamo da Madonna Cornelia", di e con Antonello Ricci e la Banda del Racconto, promossa dalla casa editrice Ghaleb. Viterbo. 6/4/2014 (Foto D. Ghaleb)

Era quasi Marzo, incontrai Peppe (Giuseppe Romagnoli, correlatore della tesi che mi apprestavo a scrivere) per concordare il programma di ricerca lungo il Fosso Roncone; insieme a lui c'era un professore/scrittore viterbese (Antonello Ricci), che conobbi in quell'occasione. Capii sin dall'inizio che sarebbe stata una esperienza unica, assimilabile più all'avventura della scoperta (seppur corroborata da ricerca e studio) che ad una piatta consultazione di documenti d'archivio.

Salimmo in macchina e Antonello travolse Peppe, me ed il mio collega Alessandro (Angelini, che si sarebbe occupato di Arcionello) con la sua passione per alcuni luoghi "cari" situati proprio nelle aree da indagare, guidando per le campagne viterbesi e indicandoci cave di peperino, mulini e canalizzazioni e mostrandoci tracce, paesaggi, suggestioni. Era quasi primavera, gradevolissima la temperatura. Ci fermammo nei pressi di una vecchia e caratteristica bettola lungo la Strada San Martinese, vicino allo “spartitoro”: proprio lì doveva esserci un mulino, ci diceva Antonello. In men che non si dica ci ritrovammo dentro, tutti e quattro seduti a un tavolaccio di legno a ragionare, seriamente per giunta (!), di opifici e insediamenti rupestri, parchi da valorizzare, leghe e corsi d'acqua, davanti ad un bicchierino di vino bianco.

Di quel giorno rimane il ricordo dell'odore acre di quel luogo, della passione che solo chi vive e ama la propria terra può trasmettere a uno studente “di passaggio”, della nascita di un entusiasmo per nuove sfide. Rapiti da un ancora sconosciuto patrimonio da scoprire, approfondire e valorizzare attraverso le nostre ricerche, io ed il mio collega iniziammo a darci da fare quel giorno stesso.

Non passò una settimana che Antonello ci richiamò tutti: doveva mostrarci un posto a detta sua affascinante. Ci rincontrammo. Ci condusse in un posto inaspettato: giunti alla tenuta, un viale importante accompagnò i nostri passi fino a una grotta, più avanti un colombaio rupestre, infine una torre. Ai suoi piedi, un giardino dimenticato: lì erba alta, edera e muschio a nascondere una, mille storie, tutte da scoprire. Un'oasi rinascimentale nata su una struttura fortificata medievale e impreziosita da un sistema idrico ancora leggibile, tre fontane monumentali, una lega per la raccolta dell'acqua e... cinque incredibili sculture che narrano di Ercole e delle sue imprese. Tutto ricavato direttamente dal peperino nel corso dei secoli, secondo i voleri delle importanti famiglie che qui hanno trovato dimora e refrigerio (Nini, Maidalchini, Gentili) riutilizzando un insediamento nato nel XIII secolo per scopi puramente difensivi.

Ha avuto così inizio la graduale riscoperta di un altro pezzo importante del patrimonio viterbese. Il complesso architettonico medievale e rinascimentale detto di “Donna Cornelia”, in località Ponte dell'Elce, ha ormai svelato i momenti importanti della sua storia, rimasti per secoli nascosti tra cabrei, documenti e testamenti negli archivi storici e nei catasti.

Marilisa Biscione
Assegnista di Ricerca CNR-IBAM
(Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali)
e Guida Turistica (Basilicata)



Colmo della fortuna sarebbe – scriveva da qualche parte Stevenson: sì proprio lui, quello de L'Isola del Tesoro – colmo della fortuna sarebbe ritrovare un giardino, un tempo oggetto di doviziose cure da parte di un giardiniere, e poi dimenticato. Un po' come succede a Mary Lennox e a suo cugino Colin, giovani protagonisti di un vecchio e fortunato romanzo della Burnett: Il giardino segreto.
In fondo, l'insediamento abbandonato di Ponte dell'Elce in strada Cassia Sud alle porte di Viterbo (XII-XVI secolo), oggi terreno privato, somiglia molto al giardino che Stevenson fantasticava/desiderava intorno alla propria Casa Ideale.
Prima i viterbesi dovettero tirar su una casa-torre fortificata con funzioni di presidio militare sul fosso Roncone: per controllare una croce di strade ancora ben leggibile, nella realtà e sulle carte, prima di venire sfigurata dagli scassi per la ferrovia (il complesso è ancora oggi pittorescamente sovrastato dagli archi del ponte in peperino della tardo-ottocentesca linea Roma San Pietro-Viterbo Porta Romana) e da quelli per l'ammodernamento della vecchia carrozzabile per Vetralla.
Poi, nel tardo Cinquecento, fu una donna ad acquisire l'area: Madonna Cornelia Nini, capofamiglia oculata e di buon polso. Per farne un delizioso giardino che svela a colpo d'occhio i suoi immediati (e più nobili) modelli architettonico-scultorei: i giganti di peperino del Sacro Bosco di Vicino Orsini a Bomarzo; le grottesche “bamboccianti” di Papacqua a Soriano; il tripudio di fontane e giochi d'acqua del Cardinal Gambara a Villa Lante di Bagnaia.
Infine, il sito fu ridotto a predio agricolo e tale si mantenne fino al repentino crepuscolo del mondo contadino. Di donna in donna. Va ricordato che il seme dei Nini doveva essere deboluccio assai: pare infatti che i nini maschi morissero come mosche (così andavano le cose sul principio del secolo XVII). Perciò, ben presto, il patrimonio di famiglia piovve nelle mani di un'altra donna dal piglio straordinario: Olimpia Maidalchini. Della futura Pimpaccia di piazza Navona e principessa dell'improbabile feudo di San Martino, si sarebbe scritto di tutto di più con penne intinte nel veleno. È certo che Olimpia, rimasta vedova di un Nini a Viterbo, fece subito fruttare la sua eredità in dote a Roma. Per “farsi” presto vedova anche lì: ma vedova Pamphilj, cioè cognata di Innocenzo X, nemico giurato dei Farnese e distruttore di Castro. Non sarà un caso se ancora nel tardo Settecento le fonti testimoniano che la tenuta agricola sul piano di Donna Cornelia – ormai passata in titolo ai De Gentili – era ancora gravata da canone annuo a favore del Principe di San Martino. Ma torniamo alle figure scolpite nel peperino vivo. Da una parte esse narrano allo spettatore di un tempo altro, un tempo out of mind dalla Modernità: risultano infatti armoniosamente inserite in suggestiva domestica convivenza con manufatti precedenti (e successivi) di un'umile ergologia. Una grotta-
cantina con tanto di data epigrafata (1881), i vari annessi agricoli arrampicati sullo sperone di roccia, la spettacolare parete a picco di un'antica cava poi trasformata in lega e impegnata come bacino di alimentazione per le fontane monumentali del giardino. D'altra parte, tali sculture paiono portare in scena nient'altro che una passeggiata/racconto d'altri tempi, vera e propria narrazione itinerante per quadri allegorici. Questo illustrano con dovizia di particolari i preziosi studi condotti da Marilisa Biscione sotto la sapiente guida di Giuseppe Romagnoli (già pubblicati in rivista: ma speriamo possano essere presto ripresi e approfonditi così da trovar posto in un libro nuovo di zecca del catalogo Ghaleb). All'ingresso infatti tre figure scolpite nel banco vivo del peperino ai piedi dell'ex fortilizio accolgono il viaggiatore-spettatore che sale al complesso dalla strada vecchia varcando il primo ponte sul Roncone: si tratta di un satiro con maschera indosso, di un gigante con clava, di una fanciulla incatenata.
Esse si affiancano come figurine di un antefatto. Biscione conclude che il gigante e la fanciulla rappresentino nient'altro che Ercole e la principessa troiana Esione. Il mito raffigurato sarebbe dunque quello dell'eroe greco che scampa da morte certa la sorella di Priamo, destinata al sacrificio tra le fauci di un mostro marino per placare le ire di Poseidone. A tale scena è dedicato un altro “pezzo” del giardino: un bassorilievo collocato nel piazzale. La mente non può non correre alla memoria del tempio tardo-classico dedicato a Ercole sul colle del Duomo; e alla leggenda medievale che aveva voluto Viterbo città di fondazione erculea e troiana. Ricordiamo l'Ercole fantasticato da Annio e affrescato, in quegli stessi anni, sulle pareti della sala del consiglio a Palazzo dei Priori; o quello dipinto dai fratelli Zuccari nella sala eponima di Palazzo Farnese a Caprarola: dove l'eroe strappa via la clava confitta a terra sul fondo della valle di Vico, facendo sgorgare l'acqua e “fondando” così il lago che tutti conosciamo.
Più in basso invece, ci imbattiamo in un leone che fronteggia una divinità fluviale: se la fiera, come sappiamo, è il simbolo secolare della comunità viterbese, non sarà un caso che il dio-fontana – certo consacrato a celebrare l'abbondanza di acque che rende il sito fertile e prosperoso (nel Catasto Pontificio ottocentesco l'area era ancora destinata a seminativo «adacquativo») – non sarà un caso, dicevo, che il dio-fontana sia disadorno di qualunque segno che possa associarlo a qualche fiume in particolare, il Tevere o l'Arno: è certo, Viterbo aveva forza e abbondanza di acque che precipitavano a valle dai Cimini, irrigavano campi e orti, muovevano pale di mulini frantoi conce gualchiere e mole garantendo ricchezza alla comunità locale. È altrettanto certo però che il modesto “fiume” di Viterbo altro non era che un paio di fossi privi addirittura di un vero e proprio nome: i quali – pur con tutta la gratitudine che meritavano - non potevano certo aspirare alla gloria eterna di una statua.
Ma allora, scusate: se il leone è emblema araldico della città; se il dio-fontana celebra le generose acque ciminie; a me quella fanciulla in catene ricorda tanto – ma proprio tanto – la bella e infelice Galiana. Col mostro marino al posto della orribile scrofa bianca di Paradosso. Poseidone infuriato al posto dei padri esuli troiani. Perché? Perché così funziona la fantasia dei popoli. E degli artisti.
Ma quel satiro. Biscione ci spiega che si tratta di Pan, il dio-capro: dio del suadente flauto e della natura selvaggia e appartata; dio dei recessi solitari, delle spelonche ombrose, degli anfratti celati e delle fonti; dio dei loci amoeni e delle poste erotiche. Con la mano sinistra egli sostiene la maschera con cui si copre il viso nella performance; con la destra brandisce una clava-bacchetta a mo' di maestro di cerimonia: è dunque lui a dirigere il rito-concerto. Ha il busto proteso verso est: una posa teatrale assai la sua, un passo del cammino, un recitare-raccontare-camminare. Beh, signori, oggi quel satiro mi sa che sono proprio io.
Ci vediamo da Madonna Cornelia.

Antonello Ricci


«L'insediamento in località ponte dell'Elce: analisi del complesso architettonico medievale e rinascimentale» e «Contributo allo studio topografico del suburbio di Viterbo tra medioevo e prima età moderna: la valle del fosso Roncone», Studi Vetrallesi 15, pp. 30-36 e 55-56 (Davide Ghaleb editore 2006)
Leggi l'articolo