Antonello  Ricci
          «QUELLO CHE DICO, DICO  POCO»
          Note sullo  spettacolo Drug Gojko di Pietro Benedetti
        L’inizio è sul  dragamine Rovigno: una croce uncinata issata al posto del tricolore. Il finale  è l’abbraccio tra madre e figlio, finalmente ritrovati, nella città in macerie.
  Così vuole l’epos popolare. Così dispiega la sua odissea di guerra un bravo narratore: secondo il  più convenzionale degli schemi, in ordine cronologico.
          Ma mulinelli si  aprono, di continuo, nel flusso del racconto. Rompono la superficie dello  schema complessivo, lo increspano, lo fanno singhiozzare magari fino a contraddirlo:  parentesi, divagazioni, digressioni, precisazioni, correzioni, rettifiche,  commenti, esempi, sentenze, morali.
          Così, proprio  così Nello racconta il suo racconto di guerra. Nello Marignoli da Viterbo:  gommista in tempo di pace; in guerra, invece, prima soldato della Regia Marina  italica e poi radiotelegrafista nella resistenza jugoslava.
          Nello è  narratore di straordinaria intensità. Tesse trame per dettagli e per figure,  una dopo l’altra, una più bella dell’altra: la ricezione in cuffia, l’8  settembre, dell’armistizio; il disprezzo tedesco di fronte al tricolore  ammainato; l’idea di segare nottetempo le catene al dragamine e tentare la fuga  in mare aperto; il barbiere nel campo di prigionia: «un  ometto insignificante» che si rivela ufficiale della Decima  Brigata Herzegovaska; le piastrine degli italiani trucidati dai nazisti: poveri  figli col cranio sfondato e quelle misere giacchette a -20°; il cadavere del  soldato tedesco con la foto di sua moglie stretta nel pugno; lo zoccolo pietoso  del cavallo che risparmia i corpi senza vita sul sentiero; il lasciapassare  partigiano e la picara «locomotiva umana»,  tutta muscoli e nervi e barba lunga, che percorre a piedi l’Italia, da Trieste  a Viterbo; la stella rossa sul berretto che indispettisce i camion  anglo-americani e non li fa fermare; la visione infine, terribile, assoluta,  della città in macerie.
          Ma soprattutto  un’idea ferma: la certezza che le parole non ce la faranno a tener dietro, ad  accogliere e contenere, a garantire forma compiuta e un senso permanente  all’immane sciagura scampata dal superstite (e testimone). «Quello  che dico, dico poco».
          Da qui riparte  Pietro Benedetti col suo spettacolo Drug Gojko. Da questa soglia affacciata  su ciò che non si potrà ridire. Da un atto di fedeltà incondizionata al  raffinato artigianato del ricordo ad alta voce di Nello Marignoli. Il racconto  di Nello è ripreso da Pietro pressoché alla lettera, con tutti gli stigmi e i  protocolli peculiari di una oralità “genuina” e filologica, formulaica e  improvvisata al tempo stesso. Pausa per pausa, tono per tono, espressione per  espressione. Pietro stila il proprio copione con puntiglio notarile,  stillandolo dalla viva voce di Nello.
          Questa la  scommessa (che è anche ipotesi critica) di Benedetti: ricondurre i modi di un  canovaccio popolare entro il canone del copione recitato, serbando però, al massimo  grado, fisicità verace del narrare e verità delle sue forme.
          Anche per  questo la scena è scarna. Così da rendere presente e tangibile il doppio piano  temporale su cui racconto e spettacolo si fondano (quello dei fatti e quello  dei ricordi): sul fondo un manifesto antipartigiano firmato Casa Pound, che  accoglie al suo ingresso Nello-Pietro in tuta da lavoro; sulla sinistra un  pneumatico da TIR in riparazione; al centro il bussolotto della  ricetrasmittente.
          Andiamo a  cominciare.