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IL TEMPIO DEI DIOSCURI
Alla riscoperta di un monumento perduto
Carlo Pavia


PRESENTAZIONE DI CARLO VERDONE

Mi è spesso capitato di incontrare persone che in qualche modo hanno avuto contatti con mio padre. Tutti lo ricordano esattamente come lo ricordo io: disponibile, affabile, comprensivo, colto, paziente ma anche severo e inflessibile; talvolta anche amorevolmente burbero.
Le loro testimonianze, preziose tessere, contribuiscono ad arricchire ed ampliare quell’enorme puzzle che si chiama Mario Verdone, un puzzle che probabilmente però non si completerà mai.
Lo dimostra Carlo Pavia con questo nuovo saggio di cui ho avuto il privilegio di leggere le prime bozze. Il nome Mario Verdone compare sulle prime pagine; lo si ritrova un po’ più avanti e diventa preponderante allorché propone all’autore di presentare i suoi primi lavori presso l’Anica di Viale Regina Margherita ma non prima di averlo fatto conoscere per il tramite del suo articolo pubblicato sulla rivista dell’Associazione Amici di Monte Mario. Bella l’affermazione dell’autore in cui dichiara che mio padre lo ha iniziato al mondo intellettuale.
E così, grazie a queste testimonianze, tangibili ricordi di Carlo Pavia, vengo ad apprendere notizie a me finora sconosciute; un frammento in più e questo non può farmi che piacere. Non solo, vengo ad apprendere che sotto la mia prima casa sui portici dei Cento Preti lui, l’autore, si insinuava alla ricerca di antiche vestigia. Mario, mio padre, ne sapeva l’esistenza, sebbene dubiti che le abbia mai viste. Carlo Pavia ne aveva infatti parlato esaurientemente durante le serate presso la sede della stessa associazione. Io ne ero assolutamente all’oscuro e mio padre se ne era stupito; tale stupore è ben tangibile tra le righe del suo contributo letterario scritto con l’Olivetti Lettera 32 di cui ricordo ancora, in quanto solidamente memorizzato nella mia mente, la sua caratteristica voce.
Non uno ma diversi elementi in più, quelli che Carlo Pavia somministra con dovizia di particolari e sapiente rispetto affinché la memoria, così come i fatti e gli avvenimenti, non vadano dispersi.
Ma nel libro non compare solo il nome di mio padre; nella pagina dedicata ai ringraziamenti ho riconosciuto alcuni “personaggi ed interpreti” con i quali, per un motivo o per un altro, ho instaurato contatti (di lavoro, di amicizia, come spunto per pianificare i miei testi, ecc).
Eh sì..., perché lui, l’autore, agisce in uno spazio che sostanzialmente è stato il territorio della mia infanzia, pubertà e maturità. Tutto ruota intorno alla riscoperta di un tempio, quello dei Dioscuri in Circo Flaminio, due monumenti (il tempio e il circo) di cui Carlo Pavia ricerca le testimonianze archeologiche nei sotterranei della mia prima abitazione e del suo primo ufficio.
Infine Carlo Pavia cita le strade e i vicoli ai quali sono particolarmente legato: via del Pellegrino, via dei Pettinari, il lungotevere dei Vallati, Campo de’ Fiori, Piazza Giudia, via Catalana, via Arenula... tutti luoghi da me solcati ripetutamente, tutti luoghi in grado di farmi ricordare storie e aneddoti molto felici e spensierati ma anche tristi e commoventi. E tutto questo a seguito del suo encomiabile interesse per l’archeologia ipogea in generale e il reperto protagonista del suo libro in particolare: una lastra topografica su cui è disegnata la pianta del tempio dei Dioscuri.
È semplicemente incredibile come un manufatto di duemila anni, e da quello che ci fa intendere neanche perfetto e tantomeno artistico, possa aver generato in lui una rimembranza di vita vissuta e un esame attento non solo delle vestigia individuate ma anche dei momenti bui e tenebrosi che ruotano ancora intorno ad esse. Se solo quelle fredde ed umide murature potessero parlare... chissà quanti altri aneddoti ne potrebbero scaturire che arricchirebbero di molto la già consistente mole di testimonianze che Carlo Pavia ha saputo ottimamente spalmare tra le scientifiche nozioni tecniche.