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CACCIATRICE DI RICORDI
Tra memoria autobiografica e filosofia
Nadia Boccara


Prologo

Roma, 16 novembre 2018, via Misurina
Sto per varcare il cancello di una palazzina immersa nel verde nella zona Nord di Roma per incontrare Francesca, una cara amica con cui per lunghi anni ho lavorato all’Università. Nella cucina del pianterreno mi aspettano Lilli, una cucciola vivacissima e la sua padrona.
Suono il citofono. Lilli salta giù dal divanetto e si precipita in giardino abbaiando. «Hai visto» le dice la sua amatissima padrona «c’è Nadia! Andiamo ad aprirle! Però non devi saltarle addosso! Fai piano!».
Entro in casa, mi lascio leccare dalla cagnetta, ben felice di ricevere un’accoglienza così festosa. Poi, mentre Francesca prepara una tisana al ginseng, estraggo dalla cartella il computer, il quadernone e le penne. Lilli capisce, a modo suo, che non è ora di giocare con la palletta ma che ci deve lasciare in pace perché dobbiamo lavorare. Lilli si acquieta alle mie parole: «No, non possiamo giocare ora. Giochiamo dopo». La cagnetta si rassegna, sale sul divanetto e ben presto si addormenta.
Ho bisogno dell’aiuto di Francesca per raccontare le vicende mie e della mia famiglia originaria di Tunisi dagli anni Quaranta fino all’arrivo degli alleati e delle nostre peregrinazioni nell’Europa del dopoguerra tra la Francia e l’Italia.
È bello tornare a lavorare insieme, ritrovare quell’entusiasmo e quell’intesa intellettuale che ci hanno permesso di trovare un modo nuovo per insegnare la filosofia.
Per portare avanti la nostra ricerca dovevamo sperimentare su di noi la validità di questa nuova metodologia prima di proporla agli studenti; decidemmo, così, di affrontare il grande tema filosofico dell’esilio. Francesca è stata testimone del mio viaggio, come io del suo, per questo ora ho bisogno di lei per raccontare della mia peregrinazione interiore che mi ha portato nei luoghi dell’infanzia, e soprattutto ho bisogno di lei per mostrare l’estenuante ricerca per trovare le parole per dirlo.
In quegli anni lontani, eravamo intorno al 2004, Francesca ed io, avevamo deciso di affrontare con gli studenti il tema dell’esilio, inteso come estraniazione da sé. Mi ha sempre interessato fin da ragazza questo tema e mi ha portato a leggere, tra l’altro, molte pagine di Gide e di Camus. Non è un caso quindi che il tema che ho voluto proporre agli studenti sia stato quello dell’estraneità da sé e che il testo utilizzato per attraversare questo tema filosofico, sia stato Lo straniero di Camus.
Francesca ed io concordavamo, anche se da due prospettive differenti, sulla bellezza e la profondità del testo del grande scrittore; volevamo servirci di questo romanzo, dalla forte impronta filosofica, per affrontare la tematica di un uomo estraniato dal proprio mondo affettivo e dalle proprie emozioni. Francesca, però, metteva in evidenza come il testo fosse complesso, ricco di sfumature difficili da cogliere senza un’adeguata preparazione; per questo ritenevamo necessario attraversare noi per prime l’esperienza dell’estraneità.
Avevo passato l’estate che precedeva la realizzazione di questa ricerca, quando già da alcuni mesi Francesca ed io eravamo immerse nel tema dell’esilio, a scrivere e tale attività mi aveva riportato alla mia infanzia in Tunisia. Infanzia dimenticata per lunghissimi anni.
Lo scrivere mi aveva portato a immergermi nelle immagini che mi suscitava quella calda atmosfera della mia terra, dalla quale fui allontanata bambina e che mi aveva visto, durante il tempo della giovinezza, ritornare soprattutto nei periodi estivi. Entrando nell’età adulta ogni rapporto con quella terra fu interrotto, anche perché in quel tempo tutta la mia famiglia d’origine era migrata a Parigi.
In quel luogo avevo lasciato il mare, la campagna, una fattoria con maiali e mucche, di cui amavo tutto, anche gli odori che derivavano da ciò che una persona adulta evita di calpestare. A Tunisi avevo lasciato gli affetti più cari, ma soprattutto il senso di appartenenza.
Rispetto alla mia famiglia d’origine, non mi sentivo più una di loro, stavo crescendo in paesi lontani, dove tutto era diverso: la concezione del tempo era diversa, la lingua era diversa.
A Tunisi, a casa, si parlava un francese mescolato con l’italiano colorito da espressioni giudaico-livornesi e arabe.
Quell’estate, tornata dalla vacanza, sentivo delle forti assonanze con il testo dello scrittore francese di origine algerina, che ci avrebbe accompagnato nell’attraversare il tema dell’esilio. Nello stesso periodo resi partecipe mia zia Jacqueline detta Jac – che aveva sposato Vittorio fratello di Vera, mia madre – del progetto di servirmi del libro di Camus per intraprendere quel viaggio. Lei mi consigliò di leggere lo scritto giovanile, Il Rovescio e il Diritto, pubblicato nel ’37 e in particolar modo di soffermarmi sulla prefazione scritta da Camus nel ’58, due anni prima di morire, in occasione della riedizione del libro.
Il suo consiglio si è rivelato prezioso.
Con emozione ho letto e riletto quella prefazione dove l’anima dello scrittore si apre e comunica con il lettore, sono pagine che catturano perché scritte con grande amore. Il passo che più mi aveva colpito e a dir poco catturata era quello legato alle immagini e all’esilio. «Sì, nulla impedisce di sognare, anche nel tempo dell’esilio, poiché almeno questo so, di scienza certa, che un’opera umana non è nient’altro che questo lungo cammino per ritrovare, con i sotterfugi dell’arte, le due o tre immagini semplici e grandi sulle quali una prima volta il cuore si è aperto».
L’espressione: «le due o tre immagini semplici e grandi sulle quali una prima volta il cuore si è aperto», mi rimbalzava nella mente e in qualche modo deve aver lavorato in me.
Compivo così in quel periodo un viaggio interiore e scoprivo immagini mie e solo mie; ma in qualche modo trovavo anche delle assonanze tra ciò che era mio e ciò che splendidamente narrava Camus sul tema dell’estraneità.
Questo filosofo, così capace a misurare ogni espressione, mi avrebbe accompagnato nel mio viaggio nell’esilio. Camus trovava le parole, mentre io annaspavo in quel materiale composto di immagini che ancora non riuscivo a nominare.

Gli azulejos
Terminate le vacanze estive, a fine settembre, mi sono recata, in occasione di un convegno di studi, a Lisbona. Era la prima volta che visitavo questa città incantata. Girando sola per le sue vie con una guida che avevo acquistato prima di partire, mi imbattevo di continuo nella parola azulejo. La trovavo ovunque, sulla guida, sui depliant pubblicitari.
Imparai che questa parola si riferisce a delle maioliche dipinte e smaltate originarie della Persia. A Lisbona si trovano sulle pareti delle chiese e dei conventi, nei palazzi e nelle abitazioni, sulle panchine, sulle fontane, sulle scalinate, su dei vecchi muretti di belvedere dove i turisti si fermano ad ammirare il panorama della città dall’alto. Gli azulejos più antichi e preziosi hanno trovato rifugio in un museo che ho visitato con un’amica francese e che è un tripudio di colori.
Mi sono davvero emozionata nell’intravedere gli azulejos incastonati nelle pareti buie, all’interno di vecchi portoncini di case un po’ dissestate di stile moresco, nel cuore della città. Queste immagini hanno provocato in me un vivo senso di nostalgia e di déjà vu.
Non sapevo spiegarmi tutto questo, il perché di tanta nostalgia. In che modo quelle maioliche mi riguardavano dal momento che era la prima volta che visitavo Lisbona?
È stato allora che ho cercato di conoscere l’origine degli azulejos e sono venuta a sapere che erano stati introdotti in Portogallo dai Mori. Ho potuto così associare quella parola fino ad allora sconosciuta con le immagini delle maioliche che avevano tappezzato alcuni portoni della mia infanzia passata in un paesaggio arabo. Mi risuonavano nella mente le parole di Camus: «le immagini semplici e grandi sulle quali una prima volta il cuore si è aperto».
Oggi, ripensando a quel viaggio a Lisbona, capisco più profondamente l’origine della mia nostalgia. Avevo ritrovato in quelle maioliche una luce e dei colori che si erano stampati nei miei occhi di bambina, quando mia madre mi portava a casa dei nonni materni, a Tunisi. Ricordo il portoncino di ferro battuto e la parete che conduceva alla scala di legno incastonata da maioliche, così simili a quelle viste a Lisbona. Ricordo anche i vasi e le ciotole che arredavano la casa di nonna, le stesse tonalità di marrone e di verde che si alternavano ai bianchi e ai gialli di Lisbona. La casa di mia nonna Gladys e di mio nonno Umberto si trovava vicino al porto, quella che allora, siamo nel ’43, portava i segni dei recenti bombardamenti degli alleati.
Dalle immagini degli azulejos che mi hanno aperto al ricordo della mia infanzia è nato il desiderio di ricercare un vocabolario arabo-tunisino, per riprendere contatto con la lingua che un tempo conoscevo, e che parlavo da bambina con la mia famiglia. Sentivo il desiderio di riavvicinarmici. Qualche mese dopo il mio ritorno a Roma da Lisbona mi recai a Parigi a trovare zia Jac e zia Lucie, sorella di mio padre Enrico. In quell’occasione in una piccola libreria trovai il vocabolario di cui ero in cerca.
Ritornata a Roma da Parigi ne ho acquistato un’altra copia da regalare a mia madre Vera, l’unica della famiglia ad aver studiato a scuola l’arabo scritto. Abbiamo così cominciato, un po’ per gioco e con molto piacere, a cercare in quel vocabolario un elenco di parole del nostro lessico famigliare.
Purtroppo questa complicità che tanto avevo cercato con lei negli anni passati e che ora stavo raggiungendo finì molto presto. Mia madre iniziò in quel periodo ad estraniarsi chiudendosi sempre di più in se stessa. Avevo di fronte a me non più la giovane madre combattente e resistente di Tunisi, bella e piena di vita, ma una signora anziana spaventata da quello che le stava accadendo ed io, nonostante ciò, continuavo in quei giorni, in quei mesi a sentire forte il desiderio di avvicinarmi con tutta me stessa a lei per trasmetterle la gioia per averla ritrovata. Questa emozione trovò parole in una lingua a lungo dimenticata.
Sentivo un forte desiderio di condividere i miei ricordi proprio con lei; desideravo starle vicino e alleviare le sue pene e la sua confusione. Quando ancora potevamo uscire e avvicinarci a piazzale Ponte Milvio, camminando piano piano, portavo con me il vocabolarietto arabo-tunisino che avevo comprato per lei e la conducevo a braccetto verso una panchina di fronte alla farmacia. Si sedeva volentieri all’ombra dei platani e forse volentieri ascoltava la mia voce che le sussurrava: «Mamma, tesoro, ti ricordi la parola che usavamo quando arrivavamo a rue de Serbie, a casa di nonna Gladys? E ti ricordi quando la mattina arrivava Sahala, il garzone arabo del negozio di spezie di nonno Umberto, tuo papà, e io gli correvo incontro contenta, per vedere cosa aveva portato nel cesto che poggiava sulla sua testa?». E nonostante il suo silenzio e lo sguardo assente non volendo accettare la realtà proseguivo imperterrita: «Ti ricordi quante ore rimanevo in cucina con nonna per assistere alla preparazione dei manicotti fritti nel miele bollente, dei macroudh e delle brik chiamate in francese cigares?».
Ben presto mi resi conto di quanto mamma facesse fatica ad ascoltare i ricordi che affluivano nella mia mente e infine accettai che lei rimanesse in silenzio a casa sua senza essere continuamente sollecitata da me. Così ho cominciato a farla riposare di più nel letto dopo pranzo. Mi trattenevo spesso a casa sua e pensavo io alla sua toeletta. Mi concedevo un grande piacere (in arabo-tunisino: kif) a portarle vicino al letto: la bacinella bianca, la spugna, l’acqua di colonia Roger Galet da mettere sulle braccia, sul collo, come avevo visto fare da lei, quando era autonoma e come avevo visto fare da nonna Gladys nel bagno di rue de Serbie, dove erano incastonati gli azulejos marroni e verdi.
Fu allora in quell’ultimo anno di vita di mamma, eravamo nel 2006, che ho potuto dare un nome a quelle maioliche: restituivo a quelle immagini così famigliari il loro nome portoghese originario.
Tutto questo mi faceva bene, e mi riportava alla mia infanzia, quando insieme a mamma salivamo le scale di legno scricchiolanti della casa di nonna Gladys fino ad arrivare al pianerottolo (in francese: palier) dove nonna mi avrebbe spalancato le braccia e accolto nel regno incantato di casa sua. Lì ritrovavo tutto il mio mondo e i giochi lasciati il giorno prima sulla tavola della sala da pranzo e sulla credenza di fattura arabo portoghese.
Se il vocabolarietto portato da Parigi aveva dato i suoi frutti per iniziare a ricucire il rapporto tra mamma e me, sono state le carezze che le davo e il profumo che le spruzzavo sul corpo a farmi contenta e a ridarmi un po’ di serenità. Un affetto disteso passava tra noi.
Sono state delle vecchie fotografie in bianco e nero che tiravo fuori dalla scatola posta in un cassetto del salotto romano di mamma a risvegliare la memoria mia e quella sua, quando ancora poteva. I ricordi comuni ci hanno unito per sempre. Tutto quel mondo di immagini prendeva vita in me. Madre e figlia si guardavano felici, si abbracciavano contente di essere insieme. È stato così che mi sono fatta del bene, mentre la guardavo sorridere serena.
Da allora mia madre vive in me. Porto stampata nel cuore l’immagine di lei sedicenne ad Addis Abeba, e di lei ventenne, già sposata a mio padre Enrico, che cammina per le strade di Tunisi, vestita con un tailleur a righe verticali, di foggia maschile, come si usava negli anni Quaranta.