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VEJANO 5-8 GIUGNO 1944
Le narrazioni italiane e tedesche tra storia e memoria
Rolf Seubert (a cura di Nicoletta Recchia)


Prefazione
Raffaele Moncada

A gennaio dello scorso anno, Rai3 ha mandato in onda, in prima assoluta, «Il Disertore» (titolo originale The Turncoat/ Der Überläufer), un film del 2020 (in realtà una miniserie di quattro ore ridotta all’occorrenza in modo da presentarla in un’unica serata) diretto dal regista tedesco Premio Oscar Florian Gallenberger e tratto dall’omonimo bestseller scritto da Siegfried Lenz nel 1951. Libro e film narrano la conversione del giovane protagonista, un soldato tedesco spedito sul fronte orientale, alle ragioni del nemico (i partigiani e l’Armata rossa), complice l’infatuazione per una partigiana polacca, nonostante quest’ultima avesse tentato di fargli la pelle. Quando Lenz propose il manoscritto al suo editore, questi non ne volle sapere. La guerra era finita da poco, i tedeschi avevano avuto più di quattro milioni di morti sul fronte orientale e celebrare la vicenda di un soldato tedesco passato con i sovietici sembrava a dir poco sconveniente, tanto più che il romanzo ricalcava la personale esperienza dell’autore, disertore della Kriegsmarine. Lenz dovette farsene una ragione e il libro riaffiorò dai suoi cassetti e vide la luce solo nel 2016, due anni dopo la sua morte (in Italia è stato pubblicato da Neri Pozza). Il rifiuto dell’editore, tuttavia, non impedì a Siegfried di conseguire fama e onori. Assieme ad autori molto noti anche in Italia, come Heinrich Böll e Günter Grass, entrò a far parte del Gruppo 47, un movimento letterario nato, appunto, nel 1947, che, a partire dall’esperienza del nazionalsocialismo e della guerra, intendeva celebrare il ruolo dell’intellettuale impegnato (a sinistra) e critico anche nei confronti della Germania di Adenauer. Tra i fondatori del movimento c’era anche uno scrittore di Monaco di Baviera, Alfred Andersch (1914-1980). A legare quest’ultimo a Lenz non vi era soltanto il fatto che erano promettenti giovani scrittori, ma anche che entrambi erano stati disertori della Wehrmacht. Sulla faccenda della diserzione, però, Andersch ebbe più fortuna, perché il suo racconto autobiografico Die Kirschen der Freiheit del 1952 (trad. it. Le ciliegie della libertà, Mondadori, Milano 1958), pur tra le polemiche ebbe un certo successo e lo consacrò come il più famoso disertore della Germania occidentale.
Le polemiche non devono stupire. In Germania, i disertori, per quanto disertori dalle ragioni della guerra di Hitler, non hanno goduto di particolare popolarità, così come, d’altronde, non poche diffidenze gravano ancora sulla memoria dei congiurati del 20 luglio 1944 (data del fallito attentato a Hitler). Non certo per una sottaciuta comprensione della bontà della causa nazionalsocialista, bensì per la radicata ma inespressa convinzione che alla ribellione (il ribelle, scriveva Lutero nel pamphlet Contro le bande brigantesche e assassine dei contadini, è come un cane con la rabbia: se non lo uccidi, ucciderà te e con te tutto un paese) è da preferirsi l’obbedienza, per quanto a ordini o sistemi politici ingiusti. Tant’è che l’anatema sui disertori della Wehrmacht (con effetti anche sui riconoscimenti pensionistici) è caduto soltanto nel 2017, quando si è concluso il processo della loro riabilitazione, iniziato solo negli anni ‘90. L’episodio di Tauroggen resta un caso abbastanza isolato nella storia prussiano-tedesca (nel 1812 il generale prussiano Yorck abbandonò di sua iniziativa l’alleanza con Napoleone – contravvenendo agli ordine del re e diventando dunque, formalmente, un Fahnenflüchtiger - e passò con i russi. Aveva ragione, tant’è che il re di Prussia, pur dopo una formale condanna del generale, accettò di passare al fronte antinapoleonico, curandosi successivamente di spedire Yorck alla riserva).
Quanto poi, oggi, la riabilitazione dei disertori, avvenuta attraverso un sofferto iter giudiziario e legislativo, sia condivisa senza ombre e reticenze dallo spirito tedesco (ma anche austriaco), è difficile a dirsi. Certo, il sospetto che il clima post-guerra fredda, l’unificazione tedesca e la solidarietà europea abbiano, almeno in parte, giocato un ruolo nella ridefinizione dello statuto etico-politico del Fahnenflüchtiger sembrerebbe del tutto lecito. In ogni caso, quel lungo percorso di riabilitazione fu avviato dalla letteratura, che dagli anni Cinquanta cominciò a interpretare la “fuga dalla bandiera” come un’orgogliosa condanna e una coraggiosa disubbidienza nei confronti di un sistema politico criminale.

Ebbene, proprio sulla trasposizione letteraria dell’esperienza della diserzione, tre studiosi tedeschi, Jörg Döring, Felix Römer e Rolf Seubert, hanno pubblicato, nel 2015, Alfred Andersch desertiert. Fahnenflucht und Literatur (1944-1952), (Verbrecher Verlag, Berlin 2015), a cui hanno fatto seguito una serie di articoli sullo stesso tema (War der berühmteste Deserteur der Wehrmacht keiner?) pubblicati sul Frankfurter Allgemeine. La domanda che gli autori, poco convinti dal racconto del noto scrittore, si sono fatti è stata: «ma Alfred Andersch è stato per davvero un disertore?» Per rispondervi, i tre, ma in particolare Rolf Seubert, hanno pensato bene di ripercorrere passo passo il cammino che «il più famoso disertore della Germania occidentale» aveva fatto nelle ore di una giornata dei primi di giugno del 1944, nelle quali aveva deciso di allontanarsi dal suo reparto, alla vigilia del suo primo combattimento.
È così che sono capitati a Vejano. E hanno conosciuto Nicoletta Recchia, autrice di un accurato lavoro di raccolta documentaria e di testimonianze sui giorni di guerra a Vejano, in particolare sul bombardamento aereo americano del 5 giugno 1944 che provocò un’ottantina di vittime tra la popolazione civile. Il volume della Recchia ha rappresentato una fonte ineludibile per lo sviluppo della ricerca e per l’approfondimento di un episodio, al quale faremo cenno più avanti, che ha suscitato in Rolf Seubert un interesse che al momento è sembrato sopravanzare quello per la vicenda della diserzione «dai contorni incerti» di Andersch.
Probabilmente, il suggestivo borgo di Vejano, ai confini meridionali della provincia di Viterbo, è più conosciuto in Germania – quantomeno tra chi si intende di letteratura o ha seguito il tormentato dibattito politico sulla riabilitazione dei disertori della Wehrmacht – di quanto non lo sia tra gli italiani. La sua notorietà gli derivò proprio dal racconto di Andersch, che nelle sue vicinanze, per la precisione nella discesa tortuosa che, lasciata la Cassia, conduce a Vejano, avrebbe semplicemente, secondo la severa valutazione di un noto scrittore tedesco, Winfried Georg Sebald, approfittato della prima buona occasione per svignarsela, salvo poi presentare la controversa diserzione come un «momento di autonoma decisione esistenziale».
Le polemiche sulla moralità di Andersch (che in realtà, restato scientemente indietro a causa di una gomma della sua bicicletta lacerata volontariamente durante la discesa, si limitò a trascorrere la notte del 6 giugno tra Vejano e Oriolo Romano, riprendendo la marcia l’indomani in direzione del suo reparto, per poi farsi catturare a Montevirginio dopo che la sua compagnia, proprio in quei pressi, era stata facilmente annientata dagli americani della 36th Infantry Division) potrebbero far sorridere il lettore italiano con conoscenze storiche, il cui stomaco è avvezzo a digerire ben altri piatti nazionali, conditi di opportunismi e furberie sicuramente più piccanti.

Ma, si diceva, Seubert si è imbattuto in un fatto – o meglio, in una lapide che spicca su una casa che si affaccia sulla piazza del comune, e alla quale la memoria dell’episodio è stata affidata nel 2014 -, uno dei tanti fatti, incerti e controversi, che hanno segnato la storia del territorio a nord di Roma al momento del passaggio del fronte nella tarda primavera del 1944. Si tratta dell’uccisione di due uomini, padre e figlio, da parte di militari tedeschi il 7 giugno 1944, alla vigilia del giorno in cui il paese sarebbe stato occupato dagli americani. L’episodio, in sé, sembrerebbe non dissimile da altri che interessarono il territorio dell’Italia centrale nel corso del ripiegamento della 14 ? armata tedesca, quando a ogni atto ostile da parte dei civili (interpretato immancabilmente come “attività delle bande”, e ciò a prescindere dalla sua effettiva natura, d’altronde assai difficile da accertare, date le circostanze), al fine di salvaguardare i movimenti delle truppe esauste e i residui servizi logistici, si reagiva per lo più con estrema durezza, prassi, d’altronde, che sarebbe stata avallata e consacrata dallo stesso feldmaresciallo Kesselring il 13 giugno 1944. Non dissimile neanche il linguaggio - che sembra ispirarsi al modulo retorico di analoghi monumenti del dopoguerra - della lapide che ricorda l’evento esposta in paese e di un’altra, che indulge su qualche particolare in più, che adorna la tomba delle due vittime civili.
Nulla di nuovo, dunque, circa la perentoria individuazione della responsabilità dell’eccidio nella «ferocia nazista» e il consueto riferimento alla «barbarie» tedesca. Senonché, l’attitudine filologica di Seubert e la sua acribia squisitamente tedesca gli hanno suggerito che c’era qualcosa «che non andava». Infatti, al di là delle ragioni per le quali le due vittime furono giustiziate (si possono fare solo ragionamenti per supposizioni, non essendoci riscontri decisivi a favore delle diverse ricostruzioni testimoniali, per lo più de relato), un fatto è certo: che l’adulto (Mariano Nobili) era il vicesegretario federale del Partito fascista. E proprio questo è il punto. Ed è ciò su cui Seubert propone una riflessione, convinto evidentemente che ascrivere al fronte patriottico, antifascista e soprattutto antitedesco anche chi dalla parte dei tedeschi restò fino all’ultimo e perse la vita in circostanze che, comunque le si giudichi, appaiono essenzialmente casuali e sfortunate - prive cioè, così parrebbe, di una consapevole intenzionalità politica o patriottica -, sia un’operazione retorica sostanzialmente mistificante che non fa seriamente i conti con la storia nazionale.

È facile immaginare il sobbalzo di Seubert quando poi ha scoperto che i nomi dei Nobili si trovavano tra i 150 trascritti nella lapide affissa dall’Anpi sulla facciata della chiesa degli Almadiani, a piazza del Sacrario di Viterbo, in memoria dei partigiani caduti in Alto Lazio. «È evidente che – scrive Seubert – nel dopoguerra la narrazione del 7 giugno è stata adattata all’allora prevalente sentimento antitedesco […] E così, post-mortem i due Nobili hanno cambiato fronte di appartenenza, e da membri del partito fascista, dopo il 1945 sono diventati partigiani e combattenti della resistenza». Insomma, per lo studioso tedesco l’intera vicenda e la sua lettura agiografica sarebbero rivelative della pervicacia con la quale in Italia si insiste a non fare i conti con la propria storia. Con il risultato, aggiungiamo, di procrastinare il confronto critico e scientifico con la pagina più controversa della nostra storia nazionale, semplificandone la lettura, con cattiva coscienza, attraverso il ricorso allo stereotipo autoassolutorio del “cattivo tedesco”.
Non è questa la sede per ripercorrere la storia della memoria e dell’”uso pubblico della storia”, del quale la Resistenza costituisce un terreno d’elezione. È noto, tuttavia, che la rappresentazione del carattere nazionale e popolare della Resistenza quale mito fondatore della Repubblica, rappresentazione che ha sorretto per decenni la memoria ufficiale del Paese, è stata di volta in volta e a seconda di chi sedeva a Palazzo Chigi, rifiutata o celebrata, criminalizzata o esaltata, sempre alla luce di interessi politici attuali, prediligendo costantemente la dimensione “monumentale” rispetto a quella “critica” della storia.
Può essere utile ricordare che negli anni Novanta, a seguito della “offensiva della memoria” sferrata dalla destra contro la cosiddetta vulgata resistenziale, si era scatenata una controffensiva antirevisionista che aveva portato a una rinnovata attenzione ai crimini nazisti in Italia e al recupero del clichè del cattivo tedesco, uno degli elementi essenziali del racconto egemonico antifascista. Da un lato, dunque, nel corso di quel decennio, la critica alla “vulgata resistenziale” (critica che spesso traduceva in semplificazioni giornalistiche concetti storiografici) aveva fornito l’occasione per esercitare pressioni politiche nei confronti delle istituzioni, affinché si cominciasse a costruire una nuova memoria pubblica che superasse la contrapposizione fascismo/antifascismo (e ciò soprattutto dopo la vittoria del centrodestra del 1994) in vista della riconciliazione nazionale. Dall’altro lato, proprio nel ’94, mentre una troupe televisiva americana scovava l’ex SS Priebke in Argentina, in un «vano recondito» della Procura militare di Roma il procuratore Intelisano apriva quello che venne subito battezzato ”armadio della vergogna”, che da decenni custodiva una cospicua mole di fascicoli relativi a crimini di guerra tedeschi commessi in Italia, archiviati “provvisoriamente” e cacciati a suo tempo in quell’armadio poi dimenticato, le cui ante erano state rivolte contro una parete.

In realtà, nonostante il clamore che accompagnò il rinvenimento, quei fascicoli non contenevano, nel complesso, nulla d’inedito. La gran parte delle notizie di reato era stata puntualmente registrata – talvolta un po’ frettolosamente e con interpretazioni enfatiche che risentivano del repentino mutamento di clima politico – nei rapporti dei carabinieri, successivamente depositati presso gli archivi dei capoluoghi e rinvenibili con facilità presso i fondi delle prefetture. La vicenda fu seguita con solerzia dal giornalista Franco Giustolisi, che nel 2004 pubblicò un volume che intitolò L’Armadio della vergogna, nel quale riportava parte della documentazione rinvenuta. Tra quei documenti vi era anche la relazione della compagnia dei reali carabinieri di Viterbo contenente un «Breve riassunto delle violenze commesse dai tedeschi e fascisti contro le popolazioni in territorio di questa compagnia», datato luglio 1945. Nel rapporto figura anche la morte dei due Nobili «uccisi e seviziati da soldati tedeschi in ritirata al solo scopo di sfogare il loro livore per la cocente sconfitta che subivano». L’interpretazione dell’evento, accolta peraltro, successivamente, nelle parole scelte per ricordare l’episodio nei monumenti di Vejano, utilizza in forma enfatica la chiave sbrigativa del furor teutonicus, dismettendo i toni da registrazione notarile riscontrabili nelle relazioni ordinarie. Non stupisce, pertanto, l’iscrizione delle due vittime nella lapide dell’Anpi, che apparve allora, come, verosimilmente, in anni più recenti, parte di quella operazione di nazionalizzazione della memoria e delle vittime che talvolta sembra considerare irrilevante la biografia di quest’ultime, riscattate dalle circostanze della morte dovuta a una malvagità specificamente tedesca, il cui carattere diabolico sembrerebbe sottrarsi a qualunque tentativo di razionalizzazione. In questa logica, l’estensione della vittimizzazione agli ex fascisti sarebbe funzionale alla prospettiva della “riconciliazione”, così da “consegnare alla storia” la contrapposizione tra fascismo e antifascismo. In questa direzione sembrò andare la dichiarazione del presidente della Camera Luciano Violante nel discorso d’insediamento del 1996, i cui contenuti furono ribaditi successivamente, con la quale esortava alla «necessità di conquistare ai valori della Resistenza, letta in chiave di impresa nazionale» anche quanti si erano riconosciuti nella parte avversaria.
L’auspicio di costruire una “memoria condivisa” attraverso la mera comprensione delle ragioni degli avversari scatenò dure prese di posizione che misero in luce quanto il filo rosso di una guerra civile strisciante attraversasse ancora il Paese, in attesa che la lontananza generazionale dalle vicende del 1943-45 cristallizzasse i sentimenti e le appartenenze in una dimensione prevalentemente simbolica e finalmente pacificata. Da un altro lato, quando verrà meno l’urgenza di anteporre il giudizio etico-politico (entrato ormai, d’altronde, nell’idem sentire della comunità) all’analisi, e le velleità pedagogiche lasceranno finalmente, in una forma compiuta, il posto alla ricostruzione scientifica, anche le interpretazioni potranno dispiegarsi con maggiore libertà intellettuale. Solo così sarà possibile metter infine in luce l’inadeguatezza dei due modelli interpretativi che hanno prevalso nella spiegazione delle stragi “naziste” individuati da Lutz Klinkhammer: quello del massacro privo di ogni senso, «come l’apice di un terrore fine a se stesso»; oppure quello che vede la strage come «esempio di una perfidia specificamente tedesca tesa a colpire quella comunità a causa del suo atteggiamento antinazista». In entrambi i casi, a spese di quella «necessità di confrontarsi con la propria storia» della quale parla Seubert. Confronto che metterebbe in luce analogie nelle modalità esecutive di controllo dei territori occupati da parte dell’Asse, che videro la solerte partecipazione di reparti italiani alla politica del terrore nei confronti dei civili: una pagina sostanzialmente rimossa dalla coscienza nazionale, che al limite la liquida come espressione della perversione fascista.
I due modelli, infine, «rifiutano la possibilità che le azioni tedesche possano aver incluso anche elementi di un procedimento “militare”», rinunciando così alla contestualizzazione militare, che consentirebbe, almeno in parte, una razionalizzazione degli eventi e una comprensione più “laica” che permetterebbe di evitare il ricorso a categorie metafisiche o pseudo-religiose (il satanico).
Per quanto riguarda i fatti di Vejano che hanno suscitato l’interesse di Seubert, il contesto è quello del ripiegamento della 14 ? armata a nord di Roma. Il Gruppo d’armate C agli ordini del feldmaresciallo Kesselring stava rischiando grosso. Gli Alleati avrebbero potuto incunearsi lungo la Valle del Tevere e chiudere in una sacca una delle due armate che stavano risalendo la penisola in condizioni esauste. La forza combattente delle divisioni tedesche era ridotta a poche centinaia di uomini con il morale a terra. In vista dell’imminente evoluzione negativa della situazione del fronte in Italia e del prevedibile ripiegamento, il 7 aprile 1944 Kesselring aveva dato ordini molto severi – che peraltro sarebbero stati di lì a breve perfino inaspriti - per i comandanti di unità impegnate in zone ove vi fosse il pericolo di partigiani: «In caso di attacco, aprire immediatamente il fuoco, senza curarsi di eventuali passanti […] I comandanti deboli e indecisi verranno da me convocati per renderne conto, perché mettono in pericolo la sicurezza delle truppe loro affidate e il prestigio della Wehrmacht». Nelle fasi convulse del ripiegamento, tuttavia, la risposta ad aggressioni alle truppe tedesche (indipendentemente da chi le avesse scatenate), non era sempre prevedibile. Molto dipendeva dai comandanti di reparto, cui la dottrina tedesca lasciava ampi margini di discrezionalità e un’autonoma valutazione dell’entità del rischio e della natura della risposta. Ai due Nobili le cose sarebbero potute andare anche diversamente.
Proprio il 7 giugno, mentre i genieri del Pi.Btl. 3 della 3. Panzergrenadier-Division erano impegnati nelle demolizioni dei ponti e nelle opere di sbarramento della strada Claudia per rallentare l’avanzata alleata, il I battaglione del 39° reggimento della 20. Luftwaffen-Feld-Division, mandato frettolosamente a cercare di rallentare la spinta alleata senza armi pesanti né supporto corazzato, fu sopraffatto senza sforzo dagli americani della 36th Infantry Division nelle vicinanze di Montevirginio, a sud di Vejano. Alcune ore dopo, Alfred Andersch, il disertore più famoso della Germania, si fece catturare dagli americani proprio in quei paraggi.
Legittimo chiedersi per quale motivo non avesse aspettato gli Amis nelle campagne tra Vejano e Oriolo Romano, dove trascorse la notte tra il 6 e il 7 giugno. Sui motivi per i quali decise invece di dirigersi verso il suo reparto, 11 chilometri circa a sud di Vejano, si può solo opinare.

 

Indice

Presentazione, Teresa Pasquali (Sindaco di Vejano)
Presentazione, Associazione Veiano.it
Introduzione, Nicoletta Recchia
Prefazione, Raffaele Moncada
Nota introduttiva
Cap. 1 - Il Lazio settentrionale diventa zona di guerra
Cap. 2 - L’incursione aerea del 5 giugno 1944: un giorno terribile
Cap. 3 - Alfred Andersch e la 20esima Luftwaffen Feld Division
Cap. 4 - Il caso Nobili: un massacro della Wehrmacht?
Cap. 5 - Diversi racconti del periodo di occupazione tedesca
Cap. 6 - Un “processo di trasformazione contemporanea”
Cap. 7 - Le truppe statunitensi attraversano Vejano
Epilogo
Ringraziamenti