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IL TEMPO CHE MI E' STATO DATO
IL DIARIO STRAPPATO
Adriana Martino


Presentazione
Goffredo Bettini

Il diario strappato” è un racconto coinvolgente di sentimenti, di passioni e di vocazioni. Inizia con un lungo diario che Adriana Martino scrive tra l’infanzia e l’adolescenza. Anche solo il diario ha un valore in sé. È uno scrigno di tesori nascosti e dei profumi di un’epoca. Impressionante la forza del linguaggio. Sembra quasi un racconto poetico scritto da un adulto e messo in bocca ad una bambina. C’è la grazia dei grandi autori e registi (per me il cinema è tra le arti la più importante…) che hanno trattato con mano leggera ma con cristallina trasparenza i temi dell’infanzia. Jean Vigo, Louis Malle, François Truffaut, Roberto Rossellini, Luigi Comencini. E, invece, quelle pagine così dolorosamente strappate, fotografate nel libro, testimoniano la spontaneità e la precocità dell’animo di un giovanissimo essere umano, che si affaccia alla vita tra tanti dolori e poche speranze. È un ritratto d’epoca. Concentrato, ingenuo nei suoi sobbalzi di umore e nei sentimenti che si rincorrono. Eppure dà contro con straordinaria efficacia della pesantezza dell’educazione piccolo borghese e bigotta con la quale i genitori di Adriana tentano di disciplinarla. Di quanto il fascismo, in fondo, al di là delle follie del regime, avesse depositato un grigiore dell’anima in milioni e milioni di italiani. Di una provincia italiana rimasta ferma, pettegola, chiusa in sé stessa. E della guerra nei suoi rantoli finali. Con i tedeschi che scappano. Con gli alleati che ancora non arrivano. E lo spazio di nessuno, che viene occupato dalle ultime vendette.
Nel diario che arriva fino all’adolescenza, c’è già tutta Adriana Martino. Anche come l’ho percepita nei lunghi anni di interlocuzione con il suo pensiero e la sua arte. Vale a dire: una grande forza emotiva, di pensiero e di carattere, a protezione di una sensibilità acuta; non ostentata, ma evidente nei suoi momenti di dolcezza, nel suo sorriso luminoso, nel piacere che dimostra verso ogni piccola attenzione, riconoscimento e affettuosità. Una donna indomita e dolce. Come quando racconta che ormai nella fase del declino fisico, accanto a Benedetto Ghiglia, il suo amato marito e compagno di vita artistica, le bastava scendere le scale dal piano dove lavorava per preparare le sue “esibizioni” e trovarlo lì; ormai sempre più anziano, in poltrona a vedere la tv o a leggere un libro; per gustarsi una vicinanza di corpi, una consonanza spirituale, una gratitudine per non essere entrambi soli.
Questa donna indomita, in gran parte con le proprie forze, ha attraversato i decenni della ricostruzione italiana. Già le prime avvisaglie della sua spinta alla libertà che avevano amareggiato il rapporto con il padre, avevano dato il segno di una sua visione critica, anticonformista e “ribelle”. Negli anni ’60 l’incontro con il PCI, grazie anche a Benedetto Ghiglia, fu inevitabile. Ci sono note di razionale distacco da parte di Adriana verso quel periodo così tumultuoso e intenso. Ma traspare una grande nostalgia per un partito colto, ricco di dibattito e di battaglia delle idee, di personalità di indiscutibile valore. Rossana Rossanda, Tortorella, Pestalozza, Mino Argentieri, Bruno Grieco e tanti altri. C’è il fastidio per la pretesa, di alcuni, di impartire linee o tendenze di partito. E di conseguenza, di privilegiare anche negli incarichi pubblici l’artista più congeniale alle idee dominanti. Ma è una critica sollevata all’interno di un giudizio generoso e vero nei confronti di quella comunità di donne e uomini che l’avevano accolta e accompagnata nel corso di tutta la sua vita. E dalla quale, si intuisce bene, Adriana Martino ha imparato tanto.
Naturalmente cercava le sintonie culturali e spirituali a lei più vicine. Adriana Martino non è stata mai un’artista (cantante, autrice, attrice, organizzatrice) tutta racchiusa nei teatri o nelle sale dei concerti così come non ha mai ceduto (dopo il ’68) alle tentazioni (alcune volte ricche di risultati) dell’arte di strada. Delle performance, anche nelle feste dell’Unità, che tra povertà tecniche, microfoni altalenanti, confusione attorno al palco, ritenevano importante solo l’entusiasmo e il contenuto delle esibizioni, piuttosto che il tentativo di mantenere sulla corda un equilibrio tra sapienza tecnica e “espressione colta” con il desiderio, e la necessità, che il pubblico popolare facesse un passo in avanti nella sua coscienza e nella sua sensibilità, piuttosto che rimanere a livello nel quale l’avevano cacciato le classi dominanti. Da ragazzo mi capitò, con il mio inseparabile amico di una vita e prematuramente scomparso Gianni Borgna, di organizzare centinaia di incontri musicali e di feste dell’unità. Era la nostra passione, il nostro divertimento, il nostro modo di svolgere la battaglia politica. Amavamo ed eravamo amici di Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli e Giovanna Marini. E avevamo grande stima per Adriana Martino. Ma mai abbiamo tentato di mischiarli. Erano approcci diversi. L’impatto struggente di Della Mea con il pubblico, non prevedeva rigore formale e neppure azzeccare tutte le note. Solo Giovanna Marini ci affascinava per la sua ricerca vocale, tecnicamente altissima. Ma Adriana, appunto, la chiamavamo, sperando sempre in una sua disponibilità, da sola. Perché portava il suo mondo, di canto bello, di espressività corporea e di richiamo a quel teatro musicato del cabaret tedesco degli anni ’30. Al confine, tra gli ultimi sprazzi di irriverenza corrosiva e implacabile della Repubblica di Weimar e l’arrivo dell’artiglio nazista, che in pochi mesi avrebbe spazzato via tutto.
Adriana ricorda una vicenda per me indimenticabile. Allora ero responsabile della propaganda nella federazione di Roma del Pci e Gianni responsabile della cultura. A me fu affidato il coordinamento generale della festa. Ero molto giovane. E l’impegno mi incuteva timore. A Gianni si diede la responsabilità del programma culturale. Ci mettemmo al lavoro in un’estate che ricordo, calda e afosa. E cominciammo ad almanaccare i nostri sogni: far tornare a cantare insieme Gino Paoli e Ornella Vanoni, invitare ad esibirsi per la prima volta in Italia il grande tenore Josè Carreras, organizzare un concerto dei Clash. Riuscimmo in tutto. Ma l’idea più originale ci venne quando ci accorgemmo che il programma, seppure bello, rischiava di non approfondire le perle di cultura e dell’arte, meno conosciute, almeno in Italia. Allora pensammo di fare un programma un po’ d’élite. Cinque spazi dedicati a generi musicali quasi mai valorizzati nelle feste del Pci: il jazz, certi cantautori; e naturalmente il cabaret. Alla scelta del cabaret, ci venne spontaneo sulle labbra, nello stesso identico momento, il nome di Adriana Martino. Così inizia l’avventura di cui si parla in questo lungo racconto che segue. Adriana svolse l’impegno con un entusiasmo ed una professionalità che raramente, in forma gratuita, ho visto mettere in campo in tutta la mia lunga esperienza di organizzatore culturale.
Con Adriana abbiamo avuto momenti anche di dissenso (per fortuna!) sul piano politico, soprattutto. Lei amendoliana e legata a Napolitano, io con Ingrao, una delle persone che in assoluto ho amato di più.
E tuttavia, tra me e Adriana si è mantenuto sempre un grande rispetto reciproco. Il mio è incondizionato. Nel corso della mia vita, non per predisposizione di carattere, ma per l’insopprimibile desiderio di lottare per le mie idee, sono cresciute anche inimicizie. Non me ne cruccio più di tanto. Ma mai, ho provato anche un piccolo senso di inimicizia verso Adriana. Mi farebbe star male e mi imbarazzerebbe. Perché Adriana è una grande artista, una persona viva e leale, una compagna nel senso più libero e tuttavia profondo di lotta per la propria e l’altrui libertà.