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NOIALTRI ITALIANI
AVEMO SOFFERTO TANTO
Memorie di un prigioniero nella Grande Guerra
Martina Cecilia Salza


Introduzione

È spesso difficile raccontare esperienze dolorose. Specie da parte di chi le ha vissute in prima persona in maniera lacerante e per anni. Così accadde all’indomani della Grande Guerra, ad oggi uno degli eventi storici, se non l’unico, più distruttivi, tragici e mastodontici che l’umanità abbia conosciuto, quando ritornati in patria quei giovani soldati si chiusero nel silenzio, allontanando il ricordo di un periodo assai triste caratterizzato da sofferenze e umiliazioni. Tale sentimento fu forte, in maniera particolare, in tutti quei soldati fatti prigionieri e condotti nei campi di concentramento dei nemici.
Otto milioni. Tanti furono, nel corso del primo conflitto mondiale, i combattenti catturati ed internati in terra nemica.
Sul fronte italiano, gli austriaci e i tedeschi fecero prigionieri circa (600) seicento mila soldati appartenenti all’esercito italiano, di cui la metà dopo la rovinosa sconfitta di Caporetto, nell’ottobre 1917.
Come è noto le morti, tra le loro fila, furono (100) cento mila. Per fame, sofferenze psicologiche, tubercolosi.
Un numero spaventoso che non spiega il silenzio che calò su queste sanguinose vicende già a partire dagli anni immediatamente successivi la prima Guerra Mondiale quando le autorità italiane cominciarono a celebrare i caduti in guerra, in quella Grande Guerra, tra il 1915 e il 1918, escludendo dagli onori ufficiali i reduci prigionieri.
Lo stesso avvenne nella storiografia europea che rimosse, per decenni, il tema della prigionia. Perfino i diari, le memorie e i racconti dei reduci rimasero nell’oblio, dimenticati tra le pieghe della Storia. Di una parte di Storia che andava nascosta da parte delle autorità civili e militari nazionali, preoccupate di occultare le proprie responsabilità rispetto alle sofferenze patite da questi uomini; da parte delle classi politiche che scelsero di intervenire nel conflitto per poi lasciare tutto il peso degli aiuti materiali ai prigionieri sulle spalle delle famiglie. Classe politica fortemente convinta che la gran parte di coloro che vennero catturati fossero traditori.
Infine, l’oblio di chi, reduce da tale devastante esperienza, tentò di rielaborare quegli anni, chiudendosi nel silenzio, allontanandone il ricordo e iniziando una nuova vita.
Tale fu il destino degli “Oubliés de la Gande Guerre”, secondo il titolo di un saggio di una delle più acute storiche francesi dell’ultimo secolo, Annette Becker.
Ma fino a qualche decennio fa.
Il ritrovamento di documenti conservati presso il fondo del Tribunale Supremo Militare, così come il riaffiorare di cartoline e diari finora censurati e caduti nell’oblio, hanno squarciato il velo su un tratto di Storia mancante.
Tale si configura anche il diario di guerra e prigionia di un nostro concittadino, il reduce Carlo Bomarsi, straordinariamente attuale.
È difficile stabilire il tempo che intercorre tra gli avvenimenti da lui vissuti e il loro farsi scrittura, grazie alla memoria. Carlo usa i verbi al passato: ma è un passato lontano? È quando tutto finisce che Carlo ha la forza di ricordare e raccontare? O lo fa strada facendo? Si ferma a farlo, ogni sera, ogni notte, quando il buio apre la porta agli incubi e ai fantasmi del giorno? Non mi hanno aiutato i ricordi della sua famiglia, ormai alla quarta generazione. Né i racconti dei protagonisti: non ci sono più. Della Grande Guerra non abbiamo più testimoni.
Mi aiuta quell’esile libricino che Carlo ha tenuto tra le mani. Un taccuino 10X15 centimetri che si può tenere facilmente in tasca, si può custodire segretamente e portarlo con sé lungo il cammino come un compagno di viaggio. Un taccuino consolatorio. Come lo è stato per milioni di soldati.
Una striscia rossa in alto, su ogni foglio, e due più esili, verticali delimitano la piccola pagina. E su ogni pagina, in alto, un numero che fa ordine in una sequenza. Un libretto per i conti, penso. Perché in fondo, all’ultima pagina vi è appuntata un’operazione matematica. Ma quella è un’altra mano, un’altra storia. In realtà si tratta di un taccuino ufficiale che veniva dato in dotazione a tutti i soldati. Con tanto di matita o penna.
Venivano forse spronati, questi giovani, a scrivere e descrivere ciò che stava accadendo? Si, in qualche modo, si. Ma non certo per lasciare traccia di quelle sofferenze. Al contrario, per indagarle, per investigare e, soprattutto, censurare. Tale fu il destino delle migliaia di lettere alle famiglie, delle cartoline che arrivavano “a tempo scaduto” a destinazione, ricoperte di continue cancellazioni da parte della censura. Era un cancellare di proposito atrocità, sofferenze, dettagli inquietanti, punizioni, colpe. Ma lasciare quei segni neri, indelebili, sulla carta non rispecchia forse lo stesso lasciare lacerazioni altrettanto indelebili su quegli uomini?
Sulla carta, sulla pelle, sull’anima.
Ma i taccuini, no. Quelli rimasti nascosti tra le pieghe dello zaino, quelli che il caso ha voluto far arrivare nelle nostre mani, nelle mie mani, quelli sfuggono all’oblio. Raccontano la verità, a volte velata dalla paura di chi potrebbe leggere, ma, alzando quel velo, si scopre ciò che vi è realmente sotto quegli eventi. E allora, io stessa, sento di ricancellare quelle cancellazioni e alzare quel velo. Per vedere cosa vi era scritto sotto. Aiutata da quei numeri su ogni pagina, Carlo mi prende per mano e mi accompagna secondo un percorso che ordina cronologicamente gli eventi.
Quanto lunga sia la linea di tempo che separa il vivere dallo scrivere diviene motivo di ulteriore riflessione. Se la scrittura di Carlo è quotidiana, allora diventa un mezzo di sopravvivenza. Scrivere una pagina per volta è vivere allo stesso modo: un giorno per volta, con la speranza che ad ogni pagina ne segua sempre un’altra.
Mi domando se il recupero della memoria sia avvenuto invece a posteriori, quando la sua mente è ormai completamente consapevole di essere stato protagonista di un pezzo di Storia. Ma anche in questo caso, Carlo non è forse riuscito a fare luce su quel tratto oscuro della sua esistenza per illuminare poi a largo raggio, come quei “rifrettori”, i frammenti di altri innumerevoli destini?
Storia di gente comune che si trova a vivere in un evento fuori dal comune.
La scrittura di Carlo ha funzione terapeutica e rivelatrice e accomuna tanti soldati, divenendo una costante non un’occasione, per tutti coloro che a malapena, in quegli anni, conoscono l’italiano e le sue severe regole. Come Carlo che prende in mano una penna, prima o dopo che sia, e si confronta con l’uso scritto attivo della lingua. E lo fa istintivamente. E correttamente pur nei continui errori ortografici. Ma sono poi veramente errori? Non celano, quelle lettere maiuscole per termini comuni, quei puntini di sospensione, quelle virgole mancanti, non celano dunque un significato più profondo che Carlo vuole trasmetterci?
Il taccuino di Carlo racconta la Storia ed è esso stesso Storia.
A noi, a me, che lo ho tra le mani, il compito di custodirlo, riraccontarlo, contestualizzarlo e lasciarlo in eredità alle nostre coscienze. Di oggi, di domani.