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IO SONO TE
Sergio Urbani


Prefazione
Valerio Modesti
Siamo sedati come i tori in un’arena perché altrimenti potremmo essere pericolosi… siamo ipnotizzati da mille visioni… drogati di parole e mendicanti che elemosinano qua e là punti di riferimento… che puntualmente ci vengono offerti, regalati, dati, imposti!
Gabriele dialoga con Orfeo, suo padre, in Sogni Superstiti, di Sergio Urbani.

 

Ricerca del superamento dell’apparenza, del conflitto, della realtà come nuda vita, forse attraverso un sogno, meglio un incubo… incomunicabilità, ricerca del comunicabile, nel tempo o fuori dal tempo, in un sogno, appunto, forse troppo tardi, forse qualcosa che sarebbe potuta essere, ma non sarà mai. Quindi cosa? Una tragedia, una farsa, addirittura tempo perso… al di fuori di una tassonomia complessa, forse. Semplicemente la vita, risponderebbe un saggio, uno di quelli che però vive nelle grotte, insomma, uno di quelli che sembra sapere tutto perché non vive nulla…
Decisamente, Io sono Te, è un lavoro denso, abissale, un viaggio in possesso di un dono, quello del flusso trascinante, spezzato dal sogno e dai Gamberi Parlanti. Un inno alla vita e allo scalciare per rimanere a galla, ma pur sempre in una palude, si intende.
Sergio Urbani è un autore che utilizza la narrativa ricercando e ricaricando l’essenza di se stesso e del mondo che lo circonda. Ma come tutti gli scrittori attenti, Urbani non è un semplice narratore. Non racconta storie, figuriamoci che noia, ma descrive, cogliendolo nelle sue innumerevoli sfaccettature, un mondo profondamente lacerato dai modi di essere delle persone; modi complicati, emotivi quasi all’inverosimile, tragici… spesso ammalati, afflitti da malattie inconoscibili, non solo fisiche, ma soprattutto psicologiche ed esistenziali. Urbani parla di sé e di noi, non di altri: impieghiamo tutto il nostro essere nella volontà di incontrarci, ma sembriamo, irrimediabilmente, nella condizione di non poterlo fare.

L’autore intesse la trama sovrapponendo piani di lettura facoltativi, da cogliere, senza mai realmente spezzare la narrazione, attingendo a motivi e fonti di ispirazione tra le più variegate. In alcuni passi le radici dello stile del racconto si intercettano bene, attraverso una rilettura che orienta il lettore, ossequiosamente e romanticamente, verso il raffinato e filosofico fraseggiare dei grandi scrittori dei tempi che furono. Questi aspetti, a ben vedere classici, sempre più merce rara presso gli scrittori contemporanei, vengono rigurgitati per generare strutture che, sanguinosamente, si radicalizzano ed evolvono per adattarsi alla fluidità tipica del romanzo post-moderno, ibrido, dinamico, con tratti che trasportano fino al limite della divagazione, con la funzione di alleggerire, o forse esorcizzare, certi aspetti di una realtà interpretata come verità incontrollabile, avviluppante, agghiacciante; il tutto, di certo, non orienta Io sono Te verso il disorganico, ma verso il complesso.
Si parlava di doni… allora qualsiasi lettore attento sarà costretto a farsi domande anche rispetto alla struttura di questo lavoro, invogliato, paradossalmente, dalla narrazione stessa, a ritornare sui propri passi nella preoccupazione di aver probabilmente dimenticato qualcosa.

Sullo sfondo post-storico del primo decennio del nuovo millennio, si staglia una vicenda di gente comune. Non si tratta né di aspiranti altolocati, né di proletari, ovvero di coloro che vengono definiti dai cronisti, spesso semplici giornalisti, classe media, una classe ormai destinata a sbarcare il lunario nell’attesa del niente, perché dire «del nulla» sarebbe troppo filosofico. Dopo la caduta del muro di Berlino, la fine dello spauracchio sovietico e l’attualità dell’Occidente unito nella lotta contro il terrorismo, il mondo sembra lanciato dalle narrative dominanti verso il superamento delle difficoltà che da sempre affliggono l’uomo. L’ottimismo e la fiducia nel progresso sembrano superare i fasti degli anni Ottanta. Nasce l’epoca dell’«Eurone», la moneta, per citare Urbani, dei viaggi low-cost, delle lotte per i diritti civili – fantasmatica riproduzione delle lotte sociali degli anni Sessanta e Settanta – mentre Facebook si prepara ad abbracciare tutti nella sua suadente morsa di orwelliana memoria.
Purtroppo, oltre il sogno, i trentenni dell’epoca trovano la terrificante prospettiva di barcamenarsi tra lavori precari, banche amiche dell’uomo, fughe di cervelli, amori impossibili e tentativi di evasione attraverso la birra, la musica, ma anche il teatro.

Già… il teatro. Universo ben noto ad Urbani, che se ne occupa da anni; prima attore, poi, soprattutto, scrittore drammaturgo e regista. L’autore scrive, infatti, per il teatro, con successo ed anche prolificità. Le attività teatrali gli hanno permesso di affinare lo sguardo, acquisendo la capacità di costruire architetture complesse, controllate, quasi cabalisticamente concepite.
Un tale bagaglio permette a Urbani di ripiegare la realtà oggettiva all’interno della propria, in teatro come nella scrittura, senza lasciare spazi vuoti, indeterminati, non segnati, al di fuori del controllo “dell’architetto”, lasciando a chi si fa guidare fiduciosamente la possibilità di poter varcare soglie invisibili ed iniziare a tracciare confini all’interno di spazi a metà strada tra la realtà ed il sogno. In sostanza, un surrealismo concreto.
Urbani, con le sue tirate e persino con le sue descrizioni, risulta tagliente, spietato, spesso dopo aver coccolato ed illuso il lettore di trovarsi in un universo dove c’è anche del buono, stravolge la situazione «mettendo in scena» quanto di peggio potrebbe capitare all’improvviso, a volte sin dalla nascita. Ovviamente, affinché l’esperimento possa definirsi riuscito, è necessario riempire minuziosamente quegli spazi vuoti e fastidiosi che spesso molestano le pagine quasi complete, bisogna trovare le parole giuste e seguire i ritmi che ci vengono imposti dal dialogo narrativo. Bisogna essere seri lettori per entrare, bisogna essere seri scrittori per invitare.
Le immagini conservano il potere magico dell’immediato, del circostanziale, catturano velocemente. Le scritture, com’è noto, trascendono il tempo, almeno dalle origini fino a noi, poi si vedrà.

Per chiudere, posso affermare che definire Urbani un debuttante scrittore con Io sono Te, suona in effetti piuttosto riduttivo. Chi lo ha seguito, e tutt’ora lo segue, nella sua più che decennale carriera teatrale, non lo avrà dimenticato alle prese con le torbide atmosfere gotiche di Sordoblio, con le terribili vicende di falsità ed inganno presenti in False Verità, con il tema della ricerca della propria identità, messa in scena con Sogni Superstiti, oppure con il tentativo di comprendere e descrivere le sfaccettature del male ne Il Campo dei Sogni Rubati.
Non va per altro dimenticato il tentativo di Urbani di raccontare anche attraverso la pittura. Mi riferisco alla sua personale mostra Fuori Tempo, presentata a Palazzo Chigi-Albani, a Soriano nel Cimino, giusto qualche anno fa. Per quanto non si definisca un pittore, Urbani ha orientato il suo «Io bambino» al di sopra delle convenzioni, per mezzo di lavori pittorici ispirati da un particolare astrattismo simbolico, accompagnato, come spesso non avviene, da riferimenti letterari molto precisi come corollario didattico ed esplicativo; uso di colori sgargianti su sfondi neutri e scuri. Lo sforzo di trasmettere emotivamente l’idea del profondo, si fa strada nel contrasto tra materia, spiritualità, assenza, presenza.
Il fluire del tempo, o fuori dal tempo, degli stati d’animo, l’essere travolti da un vortice dal quale possiamo decidere come uscire: il ruolo a volte celato della prospettiva che determina cambiamenti inaspettati. La parte cosciente e la parte non cosciente si confrontano tendendo al massimo le corde della memoria. Ricordo e percezione, prendere coscienza della realtà attraverso sensazioni vissute e assaporate in un passato che si cerca di cancellare o annebbiare. Ovvio, direte voi, ma non semplice, ribadisco.

In termini di impatto, ritornando a Io sono Te, mi sento di affermare che il lavoro sembra presentarsi nella carriera di Urbani come decisivo, sia perché sintesi del suo stile e della sua poetica, sia perché snodo in un crocevia dove la strada che porta alla scrittura si fa sempre più larga, sicura, quasi naturale: il romanzo precede parte di alcuni lavori realizzati per il teatro, ma è anche successivo a tanti altri. Nonostante questo aspetto, Io sono Te può essere considerato, a mio avviso e senza troppe mezze parole, un modello rappresentativo di tutta l’opera di Urbani. Al netto della complessità del lavoro, giova riflettere sul fatto che è la stessa forma romanzo a concedere all’autore la ripresa e l’approfondimento di spunti emersi in sede di scrittura drammaturgica, sebbene l’opera sia la stessa che ha posto le basi per lo sviluppo di temi e visioni che, seguendo un percorso inverso, saranno approfondite e sintetizzate successivamente, come ad esempio in Sogni Superstiti e Il Campo dei Sogni Rubati.
Inevitabilmente, quindi, nessuno dei lavori scritti per il teatro, alcuni di certo notevoli ed apprezzati seppur legati a linguaggi e a tradizioni specifiche, può essere considerato così seminale come Io sono Te.

Il tempo di cui siamo figli bastardi ci condizionerà per sempre. Nascere significa comprendere questo, vivere subirlo, morire dimenticarlo. Queste parole aveva letto furtivamente Elisa aprendo il moleskine nero di Giulia.

In tensione tra la visione del mondo di Nietzsche e quella di Schopenhauer, Urbani finisce, tendenzialmente, per preferire quelle del secondo, fatevene una ragione... so che non è facile, io a volte ancora non mi ci rassegno.
Dopo aver finora potuto solamente ascoltare le parole di Urbani e vederle prendere vita su un palcoscenico, possiamo finalmente assaporarle nella lettura, dando la possibilità alla nostra immaginazione di essere l’unico vero teatro dove perderci per ritrovarci in Io sono Te.