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STORIE DE NOANTRI
Prefazione di Carlo Verdone


La poesia romanesca di Carlo Pavia

È poeta del mondo piccolo borghese e fornisce, nei suoi testi, un’alternativa stilistica, ancor prima che linguistica, alle intoccabili autorità del passato come il Belli, il Trilussa, il Pascarella e il suo adorato Sor Capanna. Ne esce un ritratto di una Roma tipo fin de siècle (ormai rari esempi... a trovarli) ed i luoghi prediletti per cogliere tale Roma caratterizzano la zona in cui lavorava e viveva buona parte della sua giornata ovvero piazza della Cancelleria, Campo de’ Fiori, piazza Pollarola, via del Biscione, dei Pettinari, dei Baullari, ecc, ecc; tutti luoghi, insomma, già frequentati dal suo esimio maestro (er Sor Capanna appunto) da cui estirpa storie di tutti i giorni preferendo le più comiche, sebbene non manchino le tragicomiche.
Il componimento di Pavia nasce lì, sul quotidiano, per esagerare comicamente sul fatto del giorno o su un episodio ascoltato. È la cronaca che si fa metastoria, è l’occasione che si priva dei suoi connotati contingenti e si rivela come un momento di un ritmo costante; è la vita della gente che incontra e che vive giornalmente. Per questo vengono risaltate, e volutamente esagerate, le umane vicende come la violenza, l’astuzia, l’amore, il sesso, l’egoismo, il calcolo; tutte caratteristiche umane che si riflettono anche in animali parlanti.
Ma veniamo all’analisi strutturale del componimento paviano. Esso possiede numerose caratteristiche; si alternano tra loro e spesso si ripresentano a macchie casuali. È possibile classificarle e sovente (potrà farlo solo il lettore più attento) saranno anche databili. Noteremo che i componimenti si sviluppano in un arco di tempo di dieci anni, un periodo che va dal suo parziale abbandono dell’attività propria (si ricorda che Carlo Pavia è archeologo e scrittore) alla sua “rinascita” avvenuta nel 2021 (in pieno Covid 19), allorché ha ripreso “gli incontri” con il pubblico. Dunque, dieci anni di intenso lavoro in cui però vengono anche raccolti e opportunamente aggiornati dei vecchi componimenti; a suo dire, alcuni, come ad esempio Er Testamento de Cestio, Irina ’a raffinata, Ar supermercato Garbatella, e Du carci alle palle sono addirittura del 1992. La prima caratteristica della poesia paviana è certamente il fatto che «I personaggi» di ogni componimento hanno un nome (in qualche caso anche il cognome). Si tratta di persone reali, non nomi inventati, dunque. Per motivi di privacy essi possono essere scambiati ma nel teatro in cui agiscono sono ben conosciuti come “Augusto, er falegname”, “Ormisda, er fabbro”, “Michela, ’a sciantosa”, ecc. ecc. La botta e risposta dei personaggi è così come la sentiamo nella realtà, con un romanesco discretamente moderato: il lessico tipico di tale dialetto si sta ormai perdendo in quanto troppo inquinato da parole e idiomi esterni. I personaggi paviani sono spesso anziani ma non mancano dialoghi infantili. La seconda caratteristica, di cui si è già accennato, riguarda «I luoghi» in cui si svolge la storia (il cosiddetto “teatro del componimento”). L’epicentro è Campo de’ Fiori; er bar der campo che compare spesso in molti componimenti si trova lì. Importanti sono le vie e i monumenti limitrofi: il Palazzo della Cancelleria, via dei Giubbonari, piazza della Cancelleria, vicolo dell’Aquila, piazza Pollarola, via del Pellegrino e ... via dicendo. Sono luoghi a lui cari avendoli bazzicati per decenni. È lui stesso diventato il personaggio del luogo. Solo in tal modo è riuscito ad impregnarsi delle vicende raccontate in questo libro. È bastato prenderne nota e poi trasferirle nero su bianco. Nella poesia paviana è sempre presente il detto “cotto e mangiato”. Egli parla dei suoi personaggi nel luogo in cui si svolgono le vicende. È quello che l’autore chiama «Il punto zero», il sito in cui si posiziona per creare i componimenti. Essi possono cambiare in relazione ai vari motivi, di cui puntualmente parla, ma quasi tutti rientrano nella sua sfera d’azione ovvero intorno a piazza della Cancelleria: ecco dunque che si citano il Gradino di Ciceruacchio nel cortile del Palazzo della Cancelleria, la sala d’aspetto dell’albergo Damaso, oppure l’angolo più interno del bar, teatro di numerose storie. In qualche raro caso il luogo d’azione viene spostato nell’agro romano, comunque aree assai familiari all’autore in quanto da lui frequentate per motivi di studio storico-archeologico.
«Gli argomenti trattati» sono quasi sempre gli stessi. Giacché lo stornello, a causa della sua insita natura, possiede il tipico carattere di sfottó, l’argomento principe del componimento paviano non può essere che il sesso a cui di conseguenza fanno seguito storie di corna, tradimenti in generale o semplici (quanto naturali) incomprensioni. Pavia racconta molto di sé stesso. Lo fa talvolta in modo esilarante utilizzando una autoironia che si “taglia a fette”. Le “faccine” del componimento Già me vedo ar capezzale (p. 66) già da sole riescono a presentarci uno stato d’animo variabile ed introspettivo. In una serie di sonetti egli riesce facilmente a chiarire il suo pensiero di fronte alla morte.
Troviamo sfoghi personali, osservazioni, ma anche libera apertura ai suoi segreti ovvero fatti e vicende di cui non aveva mai parlato prima a nessuno, neanche alle persone più intime. Fortemente divertenti sono i suoi sogni – l’erotico ’a vestaja (p. 139) ci lascia letteralmente basiti di fronte alla schiettezza e alla descrizione della “particolare” situazione onirica –, così come fortemente commoventi sono quelli in cui compare la persona a cui tiene di più, ovvero la nipote Giulia ’e campanelle blu (p. 54), Perché t’adoro tanto? (p. 272), meravigliose. Svela segreti ma nello stesso tempo ci evidenzia usi e costumi del momento. Là dove sarebbe troppo evidente l’identificazione dei personaggi dei componimenti (che possono essere anche lui stesso) entrano in ballo gli animali. Aveva usato tale tecnica già in altre pubblicazioni; qui ricompare in forma più evidenziata. «Gli animali», tutti rigorosamente con il proprio nome, sì come già fatto dal Trilussa o prima ancora da La Fontaine, riflettono stati d’animo umani. Nella poesia paviana decade il detto “gli manca solo la parola”; questi sono umani.
Nel gergo dialettale romanesco compaiono, come un po’ in tutti i dialetti, «Le parolacce», specialmente quelle che si riferiscono al sesso. Pavia non le usa, o quantomeno lo fa rarissimamente e solo per motivi metrici o di rima baciata. Al loro posto vengono usati altri termini (i sinonimi sessuali) che comunque, e forse ilaricamente meglio, danno perfettamente l’idea di cosa si sta parlando o a cosa ci si stia riferendo.
Nella poesia romanesca dei suoi predecessori e maestri, come Trilussa, il Pascarella e meglio ancora il Sor Capanna, compare una netta distinzione tra «Sonetto e stornello». Il primo è spesso recitato ed è nato per argomenti tristi o quantomeno molto seri. Il secondo tratta invece argomentazioni allegoriche e a base di sfottó. In più, il sonetto classico è stravolto dall’autore: la forma originale è composta da due strofe di quattro versi e da due strofe di tre versi. Il sonetto paviano è formato da un numero variabile di strofe, comunque sempre di quattro versi.
È quasi la natura stessa e le relative costruzioni che lo impongono. Nella poesia paviana tale rigore viene meno. Così è facile incappare in esperimenti straordinari in cui in un componimento a sonetti si trattino storie allegre o, al contrario, in quello a stornelli, di storie tristi oppure fortemente meditative; così come stornelli di dieci o anche dodici versi fino ai componimenti di soli due (i proverbi romani ad esempio). Insomma, nella poesia paviana le vecchie regole e gli schemi tradizionali vengono invertiti, distorti e qualche volta anche ottimamente amalgamati.
Lui è, come già detto, archeologo e scrittore di cose d’arte.
È dunque un ricercatore. Lo è anche qui, ma gli elementi ricercati non sono ipogei, capitelli, mura o colonne; sono esseri umani. La caratteristica più interessante e lodevole della poesia paviana è «La riscoperta» degli ultimi personaggi di una Roma che fu; Carlo Pavia li fa dialogare in colloqui estremamente divertenti, li rende vivi, o meglio... ancora più vivi; li presenta affinché possano scaturirne in noi ampi sorrisi, espressioni di meditazione e, qualche volta, anche lacrime.
Nel suo ultimo componimento del libro Er manoscritto annato perso (p. 274), egli asserisce che è anche l’ultimo in senso temporale. Non possiamo sapere se ciò corrisponderà a verità. Pavia ha trattato le varie sfaccettature del romano del classico rione centrale, ma non tutte. Sappiamo che queste sono infinite e se messe una accanto all’altra possono generare innumerevoli combinazioni. Sarebbe un peccato che smetta ma già questa opera omnia è, da sola, in grado di soddisfarci a pieno.
«La ricerca musicale» del componimento è a volte lineare e a volte articolata; rispecchia, ancora una volta, la personalità del romano, i suoi sfottó, i suoi menefreghismi, i suoi controsensi. Pur tuttavia la tecnica metrica e di rima baciata è sempre molto ricercata, in certi casi anche in forma eccessiva. Sono componimenti che possono essere cantati, come tradizione vuole, ma anche, e spesso soprattutto, declamati. Si tratta di piccole opere teatrali e, se posti nelle labbra di un attore professionista, la loro valenza può amplificarsi notevolmente. Ad eccezione dei monologhi determinati dai suoi stati d’animo del momento, sono almeno due gli attori dei suoi componimenti ma non mancano colloqui a tre e, in qualche caso, anche a quattro.
L’uso degli «Emoji» a lato del titolo di ogni componimento, tra l’altro disegni dell’assai presente nipotina Giulia, prepara il lettore in modo adeguato, così, esattamente come fanno i grandi comici di zelighiana memoria e soprattutto il compianto maestro Gigi Proietti, egli lo prepara a ciò che sta per leggere. C’è da divertirsi a contare gli emoji sorridenti, sguaiatamente sorridenti, pensierosi, meditativi, disperati, tristi, “piagnosi”, con espressione di lubrico compiacimento; toccante il commovente omaggio a mio padre Mario Verdone, colui che lo iniziò al mondo intellettuale (p. 83), e così via fino a raggiungere la notevole cifra di oltre 700 “faccine espressive”. In qualche caso ne compaiono anche più di una; questo perché è possibile che lo stato d’animo del lettore cambi durante la lettura. In tutti i casi, comunque, il finale non è mai scontato ma spesso imprevedibile. La poesia paviana si basa su questo: indirizzare il lettore volutamente verso un certo concetto salvo poi modificarlo drasticamente proprio all’ultimo verso, che rappresenta ovviamente l’elemento chiave dell’intero componimento.
Conosco Carlo Pavia dalla fine degli anni ’70. In verità è stato mio padre il primo a conoscerlo; ricordo infatti che spesso andava a fargli visita presso il suo ufficio del Lungotere dei Vallati per chiedergli una riproduzione di qualche quadro o una spiegazione tecnica nel campo fotografico, nel quale campo Pavia era già un professionista. Poi lo conobbi io; mi insegnò a sviluppare e stampare fotografie in bianco e nero in casa consigliandomi i giusti materiali e impartendomi le prime lezioni. Poi fu la volta dei miei fratelli Luca e Silvia. Nessuno di noi sospettava che oltre la fotografia ci fosse una sua diversa passione, quella dell’archeologia. Ed infatti, mentre io mi preoccupavo di portare in scena le caratteristiche dei personaggi che di lì a poco mi avrebbero reso celebre, egli si insinuava nei tortuosi e lugubri pertugi dei sotterranei romani allo scopo di documentare gli ambienti che, anche nel suo caso, lo avrebbero in breve tempo reso celebre.
Mi stupii non poco nell’apprendere che anche sotto casa mia (il Palazzo dei Cento Preti sullo stesso Luntotevere, quello che nel 2012 sarebbe diventato il protagonista principale del mio libro “La casa sopra i portici”) esistano testimonianze antiche che lui puntualmente registrò per poi parlarne in una conferenza alla quale partecipò mio padre (si veda il documento riprodotto nel capitolo “Dossier iconografico”). In un certo senso ambedue facevamo archeologia: io ricercavo i personaggi, dalle caratteristiche anche più improbabili, nei vicoli di Roma; lui agiva alla ricerca di antichi ipogei, magari sotto gli stessi vicoli.
La mia prima esperienza come attore è dovuta ad un caso di fortuna o sfortuna, che dir si voglia, quando mi ritrovai costretto a sostituire alcuni attori malati per uno spettacolo del Gruppo Teatro Arte, diretto da mio fratello Luca. È qui che ebbi modo di presentare le mie esibizioni mattatoriali cariche di particolare trasformismo; non attesi molto prima che si affermassero in TV. Infatti, dopo aver portato in scena dodici personaggi diversi a teatro con lo spettacolo “Tali e Quali” nel ’77, riuscii, l’anno seguente, a ritagliarmi un piccolo spazio televisivo in quella fucina di talenti che è stato “Non Stop”. Contemporaneamente Carlo Pavia appoggiava per la prima volta i suoi stivali sul terreno millenario degli ipogei romani.
I caratteri e le macchiette che presentavo entrarono anche nel mio primo film, “Un sacco bello” (1980), venuto alla luce dopo l’incontro con il maestro Sergio Leone, da cui appresi tecnicamente come girare su un set. Nello stesso anno Carlo Pavia veniva onorato per la prima volta da mio padre con un articolo su una rivista dell’Associazione Amici di Monte Mario, là dove già da qualche tempo si incontravano per parlare della Roma Sotterranea.
L’esordio mi valse subito un David di Donatello e un Nastro d’Argento come miglior attore esordiente di quell’annata. Sergio Leone mi rimarrà accanto in veste di produttore anche nella mia opera seconda, “Bianco, rosso e Verdone” (1981), commedia che lanciò anche altre importanti collaborazioni, come quella con Elena Fabrizi che compare anche in un esilarante dibattito con lo stesso Pavia in occasione di una puntata del Maurizio Costanzo Show.
Insomma, mentre ci alternavamo esperienze di prova-personaggio (esilarante è il breve spezzone in super 8 sonoro pubblicato su youtube in cui io presento due o tre dei miei personaggi e lui dibatte con gli stessi in ciociaro) possiamo dire che partimmo insieme viaggiando sullo stesso binario. Mentre quasi ogni anno io presentavo un nuovo film, lui faceva lo stesso con un libro, ... fino a che le due parallele del medesimo binario si incontrarono nel 2016, in occasione della presentazione del suo libro “Stornelli e Sonetti”. In quel caso trovammo veramente qualcosa in comune: la ricerca degli ultimi personaggi romani, tanto abilmente descritti in quello ma soprattutto in questo libro.

Carlo Verdone