INTRODUZIONE

di Marco D’Aureli

 

 

Di Emilio Maggini (1900-1986), «agricoltore, autodidatta, Decano dei poeti dialettali viterbesi»1 sono state pubblicate otto raccolte di opere, tra poesie e prose. Ad eccezione de L’ultima goccia, data alle stampe a Roma, per conto delle edizioni della rivista «Omnia», tutti i libri di Maggini sono stati impressi negli stabilimenti della tipolitografia viterbese di Archimede Quatrini e figli. Il primo, Il grande connubio, venne pubblicato nel 1960, quando il poeta aveva già sessant’anni2. Al pari del secondo libro, L’ultima goccia, pubblicato l’anno successivo, fu scritto in lingua. Questi due volumetti, di sole – rispettivamente – 8 e 17 pagine, pur costituendo l’esordio editoriale di Maggini, rappresentano una piccola parentesi nella sua produzione. Il grosso del lavoro di Emilio Maggini, infatti, consta di poesie in dialetto viterbese. Tre le raccolte pubblicate: Viterbo al segno della Rosa. Poesie Viterbesi (1970), ’Gni mese ’n canto. Verse vitorbese (1976), ed infine ’Gni tempo ha la su’ ’mpronta. Poesie in dialetto viterbese (1988, postuma).
Oltre a quelle contenute nei volumi sopra citati, altre poesie di Maggini hanno trovato accoglienza in raccolte antologiche.
Alle opere in versi si affiancano le raccolte di prose scritte anch’esse «in forma popolare, come è espressione del popolo la parlata dialettale» (Maggini, 1972:7): Viterbo cu le scarpre grosse (1972), ’L campanone di Viterbo aricconta (1973), La cuccagna (1977), che vanno a costituire, nelle intenzioni dello stesso Maggini, un ciclo unico all’insegna della «gojaria vitorbese», intesa come espressione condivisa e riconosciuta a livello locale di «allegria, arguzia,sincerità ed anche gioia»3.
Il florilegio che questo volume offre al lettore è frutto di una operazione di carotaggio eseguita nell’opera di Emilio Maggini. Sono 60 i testi antologizzati. La maggior parte di essi in versi. Accanto alle poesie, in dialogo strettissimo, le prose. Sono stati selezionati quei componimenti che hanno come protagonisti luoghi (spazi fisici: quartieri, strade, monumenti, piazze) e persone. Luoghi connessi a persone; persone che con il loro fare, dire, o semplicemente abitare, hanno lasciato un segno molto marcato in un punto della città finendo spesso col connotarlo in modo netto sul piano dell’immaginario condiviso. Luoghi popolari, familiari, intimi, d’affezione. Piescarano, in primis. E luoghi teatro della socialità viterbese più formale e della vita pubblica. Maggini ha la capacità di ricucire, entro una unica topografia, al tempo stesso spaziale e sentimentale, luoghi dalla evidente ed indiscussa vocazione monumentale e patrimoniale con le viuzze più popolari, gli antri più nascosti, anonimi. Ed ecco così che accanto a «stemme d’illustre casate», a «palazzette riccamate di ’ntatta bellezza» troviamo, in una contiguità che non è soltanto spaziale, quelle «fontane petteguele» (’N po’ di Viterbo), luogo della vita quotidiana, degli amori, che sono «di Viterbo onore e vanto» (Funtane e Funtanelle). È tutto un unico paese, quello cantato e narrato da Maggini. La quinta sezione della raccolta Viterbo al segno della Rosa è intitolata proprio Vita dil paese. Il paese, non sorprenda, è Viterbo. L’impiego di questo termine non può esser considerato in alcun modo casuale o inconsapevole. Tantomeno svalutante. Paese è vocabolo denso, non soltanto descrittivo. Ha implicazioni identitarie, relazionali. Mentre la categoria “città” può evocare l’immagine di agglomerati urbani a volte non coesi tra di loro, frutto di giustapposizioni edilizie, di irregolare e incontrollata proliferazione, l’impiego di “paese” lascia ben intendere come nella percezione del poeta i quadranti che danno vita alla Viterbo che ha sotto gli occhi mentre scrive o ricorda siano parti di una “entità-in-relazione”4.

Riguardo alle storie che animano quei luoghi, quelle che troviamo nei libri di Maggini, specie in quelli di prose, ma anche (in maniera più lirica, evocativa) in quelli di poesia, sono pagine di vita quotidiana, ritratti che offrono –  per usare le parole impiegate dallo stesso Autore per presentare i suoi lavori – una

rassegna di fatti locali, noti e meno noti, [una] galleria dei fatti nostrani che ho cercato di far rivivere [...] per serbarne il ricordo nel tempo, alla pari di tanti altri passati alla storia nei ranghi più alti. A differenza di questi più illustri, i nostri personaggi hanno infatti vissuto e lavorato con umiltà silenziosa; ma nella loro ingenuità furono anch’essi protagonisti della loro epoca e si può dire che il loro nome corse sulla bocca di tutti all’interno della comunità paesana, allora racchiusa nella cerchia delle mura castellane. Erano questi gli interpreti estrosi di quell’inconfondibile inoffensiva «gojaria», non disonorevole o cattiva ma bonaria ed arguta, fonte di riso schietto, a volte – occorre riconoscerlo – inventrice pure di satire pungenti e scherzi pesanti, oppure espressione prudente di proteste rassegnate. Questi nostri conterranei – contadini artigiani operai – sono passati sulla scena in punta di piedi, modesti ma corretti, e hanno concluso la loro vicenda terrea di laboriosa onestà, scomparendo non di rado nell’abbandono e nell’indigenza.5

Sono storie che portano in superficie e rendono omaggio al potere dei deboli. Esprimono la capacità interna al mondo popolare (o delle “classi subalterne”, per adoperare un termine molto in voga ai tempi in cui Maggini scriveva le sue poesie) di non riconoscersi nello status quo, di prendere le distanze da esso e di dare all’esperienza propri significati, di investire la propria vita di valori autonomi e proprie rappresentazioni. Biografie, quelle raccontate da Maggini, vissute all’insegna di quella «fantasia che allevia e riscatta vite estreme, esperienze radicali tanto di emarginazione quanto di diseguaglianza», dove a contare è «il primato del gesto vitale e della battuta sagace»6. Catirinaccia docet. Vicende che, è pur bene ricordare: giungono a noi passando per il filtro dell’immaginazione letteraria e della scrittura d’autore (e dunque non costituiscono “semplice” resoconto cronachistico), e restituiscono l’ immagine di una Italia

postbellica dotata di una feconda e non fascistizzata società civile, attiva, zavattiniana, un po’ kitsch o populista per i gusti dell’intellettualità ufficiale, ma terribilmente viva.7

Di quel mondo, di quella società, Emilio Maggini è al tempo stesso espressione ed interprete. Un interprete particolare, certamente. Un interprete interno, che è a conoscenza e che condivide con il proprio “oggetto” d’osservazione codici, valori e immaginari. E che decide di raccontarlo con la lingua più vicina che c’è all’esperienza di quel mondo: quella dialettale,

veicolo privilegiato insostituibile per trasmettere con efficacia ai membri della comunità, in un’ottica moderatamente conservatrice ma non retriva, i principi portanti di un’esistenza dedita al lavoro, alimentata da un profondo senso religioso e morale, in cui i rapporti sociali sono ispirati a sentimenti di rispetto reciproco, solidarietà e tolleranza, corroborati dal senso della dignità e dell’onore.8
La trascrizione delle poesie è stato un passaggio molto delicato e che ha imposto la necessità di fare i conti con questioni ortografiche e lessicali, nonché di stile e redazionali. Si è scelto di  correggere e di adeguare alle elementari norme ortografico-redazionali soltanto quelli che sono apparsi, oltre ogni ragionevole dubbio, puri e semplici refusi (es. l’impiego, dopo un punto fermo, della minuscola al posto della maiuscola). Laddove, viceversa,  è parso di cogliere in alcune scelte ortografiche (per quanto sovente contraddittorie) una precisa volontà espressiva dell’Autore si è preferito non intervenire. Sovente è capitato di trovare identiche parole scritte con forme grafiche diverse9. Anziché avviare un lungo, difficile e tutto sommato (almeno in questa sede) non utile lavoro filologico e di normalizzazione dei testi, si è optato per lasciare tutto come da edizione originaria. Le incertezze e le incongruenze si è scelto di interpretarle come espressione dello sforzo operato da Maggini di adottare sempre nuove e più efficaci soluzioni grafiche per meglio rendere in forma scritta il colore del parlato. O come riflesso della formazione autodidatta del loro autore. Certo, un autodidatta sui generis. Consapevole, come si evince dalla Premessa redatta per la pubblicazione di Viterbo al segno della Rosa, delle complesse implicazioni legate alla scelta di adottare come strumento espressivo il dialetto10.

L’ordine di impaginazione delle poesie e delle prose non è casuale. Sulla soglia sono stati collocati due pezzi introduttivi. Il primo, ’N po’ di Viterbo, è una carrellata di luoghi, personaggi, storie cittadine che termina con un omaggio alla patrona Santa Rosa. Segue Tanto pi cumincià, una sorta di autopresentazione di Maggini nella quale l’Autore tratteggia la propria biografia, con particolare attenzione all’infanzia, sullo sfondo della Viterbo dei primi decenni del Novecento. Si apre a questo punto la parte più consistente dell’antologia. Il modello al quale essa si ispira è quello della passeggiata. Tutto ha inizio la mattina. Il preludio è costituito dalla sveglia (A li quattro e tre quarte). Le prime immagini evocate sono quelle della vita quotidiana nel quartiere originario di Maggini, Pianoscarano, dove il poeta abitava (in via San Carlo, al civico 17).  Scene di lavoro e scene di festa che si susseguono. Il dentro e il fuori delle case. Le voci, i suoni. E poi inizia la peregrinazione. Seguiamo Maggini in una esplorazione lenta e scevra da programmi del tessuto cittadino. Un tessuto che intrama luoghi e persone, spazio e tempo, mattoni e storie, e che si svela quale enorme palinsesto narrativo. Elementi urbanistici e monumentali diventano spunto per digressioni a carattere storiografico. Usciti da Pianoscarano, tramite il ponte di Paradosso, si arriva a Viterbo, come si diceva un tempo, quando attraversare quel ponte significava lasciarsi alle spalle un microcosmo ben definito, una entità autonoma, percepita come dotato di una propria identità, a se stante. Seguendo Maggini nella sua immaginaria passeggiata veniamo portati al cospetto di una Viterbo che a volte facciamo fatica a riconoscere. La città che si para davanti ai nostri occhi, intenti a leggere i testi magginiani, non è quella che conosciamo oggi. Specie – non solo, certo, ma: soprattutto – dal punto di vista urbanistico e viario. Perché la Viterbo protagonista delle poesie e delle prose di Maggini è la Viterbo della sua infanzia e della sua giovinezza. Del farsi delle sue prime esperienze. La Viterbo degli anni ’10 del Novecento, quando era bambino. Quella degli anni ’20. La Viterbo, poi, della maturità, del lavoro e dell’impegno sociale. Una Viterbo diversa, sparita in parte, o comunque: profondamente mutata. Nel suo profilo antropologico (dove sono gli artigiani, i commercianti, i contadini di inizio secolo?  Che forma ha assunto oggi la socialità di quartiere?), ma anche nel suo sviluppo urbano. Alcune delle strade che Maggini attraversò, e che noi immaginiamo oggi di percorrere al suo fianco, figurandoci quello che egli poteva osservare, non ci sono più. Non c’è più ponte Tremoli (La gallina), a scavalco del fosso dell’Urcionio, posto in prossimità del tempietto di Santa Maria della Peste e in asse con via Cairoli. Il tratto cittadino della valle scavata dal medesimo corso d’acqua è stato colmato e sopra di esso ora sorge «la mejo strada di Viterbo», via Marconi. Non c’è più la “gabbia del Cricco”, un dispositivo collocato al di sotto del piano stradale della Cassia e che si apriva alla base delle mura cittadine. Formato da pali disposti a semicerchio, costruito nei primi anni del 1700 per il contenimento delle piene dell’Urcionio11, venne coperto nel 1927 in occasione dei grandi lavori pubblici che vennero eseguiti negli anni tra le due guerre. La sfida, in questo senso, nell’allestire la pubblicazione, è stata quella di disporre i singoli componimenti lungo un tracciato stradale che fosse fedele a quello coevo alla loro scrittura. Il criterio espositivo diventa in questo modo strumento conoscitivo e critico. Il corredo iconografico, composto da mappe topografiche di Viterbo risalenti a periodi diversi, dal 1890 al 1964, è stato pensato come un supporto utile ad orientare in modo sintetico e schematico il lettore, viterbese e non, rispetto al mutare della forma della città. L’ordine col quale le poesie si dispiegano, dunque, trasforma questo libro in una sorta di guida poetica e sognante alla città di Viterbo (vista, ovviamente, con gli occhi di Maggini).
Terminata la peregrinazione per le vie interne di Viterbo, usciti da Porta del Carmine, si apre il fuori. Varcate le mura si arriva in campagna, di cui Maggini era profondo conoscitore. Fa irruzione sulla pagina il mondo dei lavori agricoli, della socialità interna al mondo rurale, di quella che oggi chiameremmo natura (categoria non primitiva da assumere in modo problematico).
Infine si fa sera. Il viaggio giunge, pian piano, al termine. Notturno Vitorbese, poesia dai toni soavi, quasi elegiaci, chiude la raccolta.
Intercalano la passeggiata magginiana le macchiette viterbesi, pezzi di taglio puramente caricaturale, i cui protagonisti sono personaggi dal carattere o dal fare particolarmente bizzarro, tale da suscitare (una mai malevola) ilarità, come il cavalier Pela.  

La presente antologia di poesie e prose in dialetto viterbese, pubblicata a quasi trent’anni dall’ultima edizione di scritti firmati Emilio Maggini, rende omaggio ad una tra le più rilevanti figure del panorama letterario cittadino. E lo fa in modo particolare, non come gratuito esercizio encomiastico. Grazie alla nota di Antonello Ricci, che evidenzia l’originalità delle scelte linguistiche operate da Maggini, l’Autore e la sua opera finiscono col trovare collocazione entro uno spazio che va ben oltre la dimensione cittadina e locale per diventare una pagina della storia culturale, linguistica e letteraria del nostro Paese.